venerdì 28 maggio 2021

Il problema relativo allo spazio della pena


 

 Articolo di Maria Sole Lupi

Lo spazio della pena è una delle tematiche più importanti e più dibattute quando ci riferiamo ad una pena costituzionalmente intesa. L’Art.27 comma 3 della Costituzione cita: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”.

Ebbene, la prima riflessione che occorrerebbe fare è certamente relativa allo spazio di quale tipo di pena. Tuttavia, trovandoci ad oggi in una logica penale ancora prettamente di tipo “carcerocentrica”, è d’obbligo “limitarsi” allo sconto della pena in carcere.

Un istituto detentivo che risponda ai requisiti del trattamento umano e teso alla rieducazione del condannato è certamente quello immaginato dalla riforma del 1975, il quale mette nero su bianco la necessità di spazi utili alla rieducazione e alla risocializzazione per il reinserimento sociale del reo. Ovvero di spazi pensati per l’attività scolastica e formativa, spazi di lavoro e qualificazione professionale, spazi per attività socio-ricreative e di spazi dedicati agli incontri con i familiari e i legali, oltre che per l’assistenza sanitaria e il culto religioso.

 

Lo spazio della pena detentiva, ossia lo spazio del carcere, dovrebbe avvalersi di un insieme di spazi sia interni che esterni volti a garantire, secondo gli Artt. 2 e 3 della Costituzione italiana, il rispetto della pari dignità della persona reclusa[1] e dei suoi diritti inviolabili, in quanto il carcere costituisce “una formazione sociale” ove il detenuto svolge la sua personalità[2].

 

Ad oggi, timida è stata la risposta attuativa alla normativa prodotta in termini di spazi, nonostante il legislatore sia stato chiamato più volte ad intervenire sul miglioramento dei luoghi della vita carceraria. La recente riforma dell’Ordinamento Penitenziario, con i d.lgs 2 ottobre 2018 n. 123 e n. 124, ha normativamente disposto la necessità di locali più idonei alle attività sportive, ricreative e religiose[3], l’aumento delle ore d’aria, incremento dell’assistenza sanitaria, maggiore attenzione alle attività lavorative, alla formazione professionale e scolastica e al rapporto con le famiglie[4].

 

Tuttavia, a causa anche dei blocchi dovuti alla pandemia, non è affatto migliorata la situazione sulla riqualificazione degli spazi detentivi rispetto a quella antecedente al 2018. Lo stato delle carceri, come riportato periodicamente dall’Osservatorio di Antigone, è ancora fortemente inadeguato a garantire la finalità rieducativa della pena sia per il suo stato architettonico e edilizio, spesso in scarso stato di manutenzione, sia per le condizioni igieniche e sanitarie a volte precarie e una generale carenza di spazi dedicati ad attività sociali, ricreative o lavorative[5].

Emergono spazi inadatti e insufficienti anche per via di un sovraffollamento sempre crescente, dovuto all’aumento continuo della popolazione carceraria (soprattutto di genere maschile) dal 2013 ad oggi e che ha visto - solo nello scorso anno - il decrescere di 10.000 unità in buona parte grazie al d.l. 17 marzo 2020, n. 18, c.d. decreto 'Cura Italia'.

 

Come ben affermato di recente dal Garante Nazionale delle persone private della libertà personale Mauro Palma: «Occorre non tanto soffermarsi sulle dimensioni della cella, che dovrebbe ridursi ad una semplice camera di pernottamento, ma occorre pensare a tutta la parte esterna ad essa in cui vive la persona attuando una concezione spaziale diversa del carcere». (Mauro Palma, “Pene e misure non detentive tra scelte legislative, applicazioni amministrative e indirizzi della magistratura requirente” in Giornata inaugurale del Master di II livello in «Diritto penitenziario e Costituzione» VIII edizione).

 

Questa osservazione si allaccia necessariamente ad un secondo punto toccato anche dai relatori del Convegno citato (tra questi i professori Giovanni Serges, Marco Ruotolo, Capo DAP Bernardo Petralia e altri), ossia quello della pluralità degli attori che debbono, o almeno dovrebbero, confluire all’interno del carcere.

Se, dunque, guardiamo alla dignità della persona reclusa, è doveroso sottolineare che si necessitano spazi, non solo in termini di quantità, ma anche di qualità. Ossia di spazi affinché si concretizzi la disposizione contenuta con l’ultima modifica apportata alle Regole Penitenziarie Europee nella Raccomandazione R(2006) 2 del Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa all’articolo 5: «la vita in carcere deve svolgersi in modo possibilmente non difforme da quella che si svolge all’esterno»[6].

Tra questi, a titolo di esempio, lo spazio della pena dovrebbe includere di specifiche aree di accoglienza per le famiglie e di stanze dell’affettività in cui poter avere privatamente un’interazione sana tra genitori detenuti e figli e tra partner. La possibilità di godere della presenza di questi luoghi, sia essi esterni che interni agli edifici carcerari, contribuirebbe a ridefinire il senso di responsabilità del detenuto e della detenuta verso la propria famiglia - e principalmente nei confronti dei propri figli -, che un colloquio di un’ora o poco più non riesce a dare.

 

Tra i punti lasciati in sospeso dalla Riforma del 2018, e che contribuisce a delineare fortemente la situazione attuale, vi è senza dubbio la forte discrepanza tra gli istituti di pena italiani circa alcune modalità di trattamento e di svolgimento della vita carceraria della popolazione detenuta. Tra le cause di questo “gap” ad essere state lasciate irrisolte nella forma e nella sostanza, ve ne sono due sicuramente più importanti: la prima è la “scuola di pensiero” a cui appartiene il direttore del carcere, il quale può essere più o meno incline ad aprire la struttura ad iniziative provenienti dall’esterno; la seconda, strettamente collegata alla prima, è la dipendenza dall’offerta del territorio nel quale il carcere si colloca. Si rende necessario, pertanto, che - affinché sia effettiva la finalità rieducativa della pena - si propenda verso l’uniformazione della vita intramuraria degli istituti penitenziari con particolare riguardo a quei modelli virtuosi circa il rispetto della dignità della persona e dei diritti umani fondamentali.

Infine, che il carcere - in quanto “spazio della pena” non alieno alla società - sia strettamente collegato allo stato in cui vige la società al suo esterno e dunque anche alle opportunità che il territorio può offrire in merito alle opportunità professionali, formative e assistenziali.

 

Maria Sole Lupi



[1] Art.3 comma 1 Cost.: "Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”.

[2] Art.2 Cost.: "La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l'adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica, sociale ".

[3] Art 5 Ord. penitenziario modificato dal D.Lgs. 2 ottobre 2018, n. 124 : “Gli edifici penitenziari devono essere dotati di locali per le esigenze di vita individuale e di locali per lo svolgimento di attività lavorative, formative e, ove possibile, culturali, sportive e religiose”.

[4] Art. 15 Ord. penitenziario modificato dal D.Lgs. 2 ottobre 2018, n. 124: “Il trattamento del condannato e dell'internato è svolto avvalendosi principalmente dell'istruzione, della formazione professionale, del lavoro, della partecipazione a progetti di pubblica utilità, della religione, delle attività culturali, ricreative e sportive e agevolando opportuni contatti con il mondo esterno e i rapporti con la famiglia”.

[5] XIII Rapporto di Antigone: “Lo spazio del carcere e per il carcere” di Alice Franchina.

[6] Art.5 della Raccomandazione R(2006) 2 del Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa

lunedì 17 maggio 2021

Viaggio nelle carceri italiane



Basta non guardare le porte e potrebbe sembrare un convitto, o anche un ospedale. Invece è proprio un carcere. Siamo a Bollate, hinterland di Milano. Vengono da tutta Europa a trarre ispirazione da un modello che responsabilizza il detenuto e ne prepara il reinserimento. Con i suoi laboratori - e c'è perfino l'ippoterapia - è un ideale che funziona davvero. Per ora, però, il sogno si ferma qui. La Casa di reclusione II di Bollate fa ancora figura di cattedrale nel deserto, rispetto alle altre.




venerdì 14 maggio 2021

VOLONTARI IN CARCERE: ECCO CHI SONO E COSA FANNO

 
 

VOLONTARI IN CARCERE: ECCO CHI SONO E COSA FANNO

Chi, per qualsiasi motivo, ha conosciuto il mondo del carcere, ha spesso voglia di impegnarsi come volontario per aiutare chi ci vive. 

Articolo di Maurizio Ermisino di Retisolidali.it

Il carcere è un mondo a sé, con le sue regole e i suoi ritmi. Una volta conosciuto è difficile scrollarselo di dosso, che lo si abbia sperimentato come detenuti, come insegnanti o legali, o con qualsiasi altra missione si sia entrati tra quelle mura. Molte delle persone che, da diversi punti di vista, hanno conosciuto il carcere tendono a tornarci, da volontari, per aiutare chi è lì dentro. Semi di Libertà Onlus ha organizzato un corso on line, Volontario dentro e fuori il carcere, per far conoscere molti aspetti utili a chi vuole occuparsi di questo mondo così delicato, e hanno aperto un gruppo su Facebook per discuterne (Volontari dentro e fuori il carcere). È qui che abbiamo conosciuto molte delle storie che vi raccontiamo, per capire che cosa c’è dentro chi sceglie di fare volontariato in carcere.

Uno sportello d’ascolto

Maria Teresa Caccavale ha insegnato in carcere per 27 anni, dal 1991. Quel mondo le è rimasto dentro e oggi ha un’associazione, Happy Brigde, che si occupa di varie attività con i detenuti. L’incontro con quel mondo è arrivato per caso. «Nel 1991 vinsi il concorso a cattedra, e dovevo scegliere una sede», ricorda. «La sede non era il carcere ma la scuola dove avevo insegnato precedentemente. Ma la cattedra era sparita. L’unica che rimaneva nella zona era Rebibbia. È stato un caso, al carcere non ci avevo mai pensato».

 

 

Una tombola solidale, organizzata da Happy Bridge

«All’inizio avevo un po’ paura», racconta. «Colpa delle leggende che descrivono il carcere e i detenuti come persone pericolose. Invece è stata la scoperta di un mondo che mi ha dato tantissimo». In carcere un insegnante non fa mai solo l’insegnante. «Cercavo di capire come funzionava la struttura e così si creava un rapporto confidenziale con i detenuti, che mi chiedevano di intercedere con l’area educativa, o di aiutarli con delle pratiche in sospeso», rievoca Maria Teresa Caccavale. «Ho incominciato a fare sostegno alle famiglie, a chi aveva problemi con i figli e le mogli, chi aveva bisogno di parlare con gli insegnanti dei figli». E così è nata un’analisi dei bisogni reali delle persone che vivevano in carcere. «La scuola c’era, c’erano i corsi di ceramica, l’università, lo sport. Mancava uno sportello di ascolto, dei volontari che andassero là e ascoltassero le necessità dei detenuti» racconta Maria Teresa. «Mancava lo sportello legale, un avvocato che gratuitamente  desse delle consulenze ai detenuti. Ho pensato di fare un corso di yoga, un’attività alternativa alla fisicità dello sport ordinario, che ti dà una disciplina di vita, insegnamenti che ti fanno evolvere. È stata un’esperienza bella con molta difficoltà, non a causa della direzione, ma del contesto: non avevamo una sede, una stanza, abbiamo dovuto farlo nei corridoi. Abbiamo pensato a un laboratorio linguistico di spagnolo. E un laboratorio di scrittura».

Il 14 febbraio 2012 è nata l’associazione Happy Bridge. In questi anni ha organizzato concerti e ha fatto scrivere le persone. Così è appena nato un libro, Pensieri reclusi. E in questi anni arrivate nate tante soddisfazioni, come quella di vedere un proprio allievo di yoga diventare riflessologo plantare, e un altro maestro di yoga in Albania.

Lo yoga e i traumi

A proposito di yoga, c’è chi ha deciso di mettere la sua esperienza al servizio dei detenuti del carcere di Verona. È Roberto Cagliero, e insegna meditazione dal 2003. Anche la sua esperienza è iniziata per caso. «Tre anni fa un gruppo di Verona che gestisce dei cavalli che vivono nel carcere di Verona e di cui si occupano i detenuti per un corso che sfocia in un diploma di tecnico di scuderia, mi ha chiesto di partecipare con una lezione di yoga», ci ha raccontato. «I detenuti non sono a loro agio con gli animali: stando al chiuso, in situazioni potenzialmente fragili, il contatto on l’animale un po’ di paura la suscita sempre».

 

 

Yoga in carcere: non è facile insegnarlo, ma è utile

Era da un po’ che Roberto pensava al volontariato, e l’occasione ha dato il via a una nuova idea. «Ho coinvolto altri insegnanti di yoga e meditazione, perché c’è stata la possibilità di aprire l’attività anche nella sezione femminile, dove insegnano tre ragazze» racconta Roberto. «Tre anni fa ho fatto un corso a Londra con un’associazione americana, Prison Yoga Project, che fa una serie di seminari in giro per il mondo per insegnare a relazionarsi con i detenuti, e gli esercizi da non fare per non scatenare reazioni avverse».

«I detenuti negli Stati Uniti per il 90% hanno avuto traumi, prima di andare in carcere», spiega. «E ci sono delle modalità che possono fare da trigger, riportarli nel momento in cui hanno subito il trauma e possono avere reazioni che li destabilizzano. Toccare una persona sulla spalla da dietro è qualcosa che lo manda in tilt. Esercizi in cui ti metti a 90 gradi possono ricordare una sgradevole ispezione, o quelli in cui incroci le mani potrebbero far pensare all’arresto. Sono persone sempre in allerta, che prendono farmaci per dormire e possono abusarne». L’impatto con il carcere, per Roberto Cagliero, non è stato difficile, anzi. «Erano tre anni che andavano dentro con i cavalli» racconta. «Non ho trovato grosse differenze tra un gruppo di detenuti e uno di allievi normali. Certo, tutto è più rallentato. Il trauma ti porta a quel processo che si chiama numbing, un rifiuto della relazione con la realtà».

Tornare in carcere, da volontario

C’è poi chi si trova a fare volontariato in carcere perché in carcere c’è stato, come ospite. Marco Costantini è stato un residente del carcere di Rebibbia e quel mondo gli è rimasto dentro, ma nel modo migliore. Oggi lavora con il Partito Radicale, ma non ha mai smesso di aiutare chi è rimasto in carcere, da volontario, da solo o con realtà organizzate. «Ho conosciuto tante persone, tanti volontari» ci racconta. «Io ho fatto l’università, e vedere tante ragazze che donavano le ore del loro pomeriggio – invece che stare con il ragazzo o con le famiglie – per farci studiare, per farci capire il passaggio di un esame, mi ha fatto capire che è un donare ti fa stare bene».

«Ho cominciato ad aiutare tante persone che non avevano possibilità economica, piccole cose pratiche», continua. «Poi ho iniziato un percorso: abbiamo cominciato a dare un supporto agli stranieri, a fare per loro delle pratiche». «Sono cose che mi vengono in maniera normale, neanche mi sforzo a farle» confessa Marco. «Faccio volontariato come singolo, ma collaborato con Sant’Egidio, ad esempio per i pranzi di Natale. Ma cerchi di fare un po’ tutto, per donare un po’ del tuo tempo a persone che hanno bisogno». E in questo modo arrivano anche le soddisfazioni. «Abbiamo voluto fare un evento a Rebibbia contro la violenza sulle donne» ricorda. «Tutti mi dicevano che era impossibile. Invece sono riuscito a portare l’avvocatessa Lucia Annibali. Per me è stata una grande rivincita: ha fatto capire che anche i detenuti hanno una coscienza, dentro hanno molto, ma se non vengono aiutati non possono crescere».

Imparare a fare il volontario

La vita da volontaria deve ancora iniziare invece per Simona Ciaffone, oggi tirocinante al Tribunale di Sorveglianza di Roma e praticante abilitato in uno studio di diritto penale. Ha appena seguito il corso di Semi di Libertà Onlus e sta per dare vita a una sua associazione. «Tratto quotidianamente la materia e l’ho sempre vista da fuori», spiega. «E mi sono resa conto di quanto sia difficile fare volontariato in carcere. Ho imparato a comunicare con i detenuti  e mi sono detta: vorrei imparare un linguaggio che non sia solo quello prettamente giuridico. Perché le persone hanno bisogno di altre speranze che non siano le vie legali».

 

Rita Bernardini intervista  Maria Teresa Caccavale, presidente di Happy Bridge

C’è allora bisogno di una formazione, di trovare un nuovo modo di relazionarsi. Il corso è servito a questo, e a togliere quel poco di pregiudizio che si rischia di avere in questi casi.  «Il percorso di studi ti preparava a una realtà piena di crimine. Avvicinandomi mi sono resa conto di quanto possano incidere le situazioni personali, contesti di provenienza, malattie, discriminazioni. Accanto al sistema penale deve esserci un appoggio umano, che ti tira fuori da quei contesti di provenienza».

«Nel momento in cui ci rapportiamo al detenuto, come professionisti, dobbiamo avere un po’ di distacco, dobbiamo distinguere le posizioni», continua. «Con il volontariato è un altro tipo di posizione ancora, di linguaggio, è un contesto diverso». Già frequentando alcuni luoghi come il Pub Vale La Pena ci si può rendere conto di che persone sono quelle che cercano di ripartire dopo il carcere, o in attesa di finire di scontare la pena. «Chi è entrato a far parte di percorsi riabilitativi e alternativi al carcere è molto disponibile al dialogo, a raccontarti da dove è partito» ci spiega la volontaria. «Chi si vede negato questo percorso fa più fatica. In una delle lezioni si diceva di fare attenzione a non lasciare da parte chi ha più fatica ad esprimersi».

Il volontario fa di più

Sono storie diverse una dall’altra, con il comun denominatore dell’importanza del volontariato in un mondo come questo. «Il terzo settore è importante per coprire le carenze a cui non può far fronte lo Stato,» concorda Maria Teresa Caccavale. «Durante il lockdown si è visto: certe persone si sono abbrutite completamente, c’è stato un arretramento».

«I volontari forniscono quello che lo Stato dovrebbe fornire, ma vengono proprio in sua sostituzione» commenta Simona Ciaffone. «Il volontariato è fondamentale non solo perché aiuta ad accompagnare un percorso educativo, ma lo fornisce ». «È impensabile che il sistema possa sopravvivere senza il volontariato» ragiona Roberto Cagliero. «Ma la volontà di riequilibrare le persone o punirle non è una decisione delle singole strutture, ma l’atteggiamento che il Ministero della Giustizia ha nei confronti del detenuto. E questo in Italia è disastroso»

 

articolo a cura di Maurizio Ermisino di retisolidali.it


 

mercoledì 5 maggio 2021

SOGNANDO IL FUTURO DOPO LA PANDEMIA

 

Continuano i nostri laboratori di scrittura che coinvolgono le persone detenute e tutti coloro che desiderano contribuire a questo progetto.

 

 


 

martedì 4 maggio 2021

Leyla Pafumi intervista Maria Teresa Caccavale

 

New world il nuovo programma televisivo di Luca Guardabascio, un regista italiano che guarda al sociale con occhio profondo, come un sub che scruta i sottofondi marini. Riportiamo la prima parte dell' intervista fatta alla nostra Presidente Maria Teresa Caccavale che parla della sua esperienza da docente e volontaria in carcere e del perché NESSUNO SI SALVA DA SOLO.
 
 


 Leyla Pafumi intervista Maria Teresa Caccavale a New World

su EMS MSMotorTv Sky 813 e TivuSat 55

 

 


👆 Video della prima parte dell'intervista 👆

_______________________________________________________________________

 

👇Video della seconda parte dell'intervista👇


 

lunedì 3 maggio 2021

EVOLUZIONE DELLA PENA di Maria Sole Lupi

Vi proponiamo un articolo sull’Evoluzione della Pena  scritto per noi di Happy Bridge dalla nostra volontaria e collaboratrice Maria Sole Lupi, dott.ssa in Scienze Politiche e Relazioni Internazionali che ha affrontato nella sua tesi di laurea il tema del diritto alla genitorialità in carcere. Da alcuni anni lei si sta occupando dell’approfondimento dei diritti umani nell’esecuzione penale, con particolare attenzione al diritto alla genitorialità dei reclusi e al diritto del minore al mantenimento del legame con il genitore detenuto.

Ora sta continuando la sua specializzazione con il Master in Diritto Penitenziario e Costituzione all’Università degli Studi Roma Tre.

Buona lettura!

 



L’evoluzione della pena: una prospettiva storica

Malgrado, ad oggi, il carcere rappresenti una discarica sociale, la cui composizione della popolazione detentiva rispecchia de facto le criticità della società contemporanea e dunque il suo fallimento, l’esecuzione della pena ha subito nel corso del Novecento una grande trasformazione. Il mutamento storico, che ha accompagnato la produzione legislativa sulla pena, ne ha modificato il suo concetto sia sul piano formale che sostanziale. Prima che i grandi e illustri protagonisti della Resistenza e della storia repubblicana italiana potessero forgiarne la sua “finalità rieducativa” all’interno del dettato costituzionale del 1948, la pena era stata priva di ogni riferimento al rispetto della dignità della persona umana e dei suoi diritti fondamentali. Dall’epoca liberale e per tutto il periodo fascista la pena in carcere era l’unica possibile e rappresentava una vera e propria elusione dell’individuo dalla società esterna. Come ci insegna il magistrato prof. Guido Neppi Modona, in una lezione al Master “Diritto Penitenziario e Costituzione” dell’Università Roma Tre del 2014, il carcere tra fine Ottocento e inizi Novecento non prevedeva alcuna forma di contatto con la realtà esterna se non attraverso poche possibilità di colloquio con i familiari mediante il controllo visivo e auditivo delle “guardie”. Era negato al detenuto l’accesso all’informazione, con la proibizione dell’ingresso nel carcere di giornali, specialmente se politicizzati. Il prof. Guido Neppi ci riporta un discorso parlamentare del 1921 di Filippo Turati, in cui disse: “i giornali sono banditi dalle carceri come cosa peccaminosa per i detenuti e per le guardie”. Mediante il Regolamento del 1891 su “Carceri e Riformatori”, infatti, si relegava il detenuto di allora a un’entità senza nome e senza personalità, da ghettizzare e da emarginare. Non erano previste attività di rieducazione né di risocializzazione, se non le pratiche religiose e il reclutamento di lavoratori non remunerati. Se con un Regio decreto del 1921 erano state privilegiate in qualche forma le istanze rieducative della pena di scuola positiva, il Codice Rocco del 1930 – approvato nel periodo fascista – e poi le leggi successive, ne avevano contraddistinto una involuzione nei termini di umanità, confermando con maggior rigore il carattere afflittivo e punitivo della pena. Come riporta il magistrato, il carcere fascista fu a tutti gli effetti una forma di controllo politico e sociale ai danni dell’autodeterminazione dell’individuo dell’epoca, così come lo divenne la scuola e l’esercito. La presenza della religione nel carcere – mediante la figura del cappellano – era uno dei mezzi principali di indottrinamento al fascismo. Nel Decennale delle leggi fasciste del 1941, il Guardasigilli dell’epoca, Dino Grandi, pubblicava due volumi dal titolo “Bonifica Umana”. Sebbene il carcere fosse previsto come extrema ratio – inquadrato laddove non si riusciva a portare all’ordine persone difficili – in quella gerarchia dei mezzi di controllo definita dalle case di rigore e dalle scuole differenziali, esso privava l’individuo di ogni residuo di personalità fino ai provvedimenti di polizia a carattere eliminativo, tra i quali il confino. Un trattamento simbolo di tutta l’involuzione totalitaria di stampo nazista. Durante la Repubblica di Salò nel biennio 1944-45 le carceri prendevano la forma di campi di lavoro e di concentramento, di reclutamento di personale rivoluzionario, bandito, dei detenuti politici della resistenza. Quando finalmente iniziarono i lavori della costituente, tra l’estate e l’autunno nel 1946, furono numerosi gli ex detenuti politici e i protagonisti autorevoli della Resistenza che vi presero parte e che plasmarono il dibattito intorno alla ridefinizione della pena.  L’Art.27 della Costituzione della Repubblica Italiana assieme agli Artt.2, 3 e 13, rappresentano il reale cambio di rotta sull’esecuzione penale che si impose a partire da quel periodo. Erano tante le speranze di riforma, tuttavia, si dovette attendere il 1975 affinché la finalità rieducativa della pena potesse essere convertita in legge. Quel ritardo della riforma dell’Ordinamento Penitenziario lasciò in vigore per quasi trent’anni il Regolamento penitenziario di epoca fascista, in aperto contrasto con il contenuto della Costituzione del ’48. Il carcere degli anni ’50 è definito dal prof. Guido Neppi come “un carcere pacificato e morale”, contraddistinto dall’inizio delle visite da parte dei pontefici, del ruolo indiscusso dei cappellani e dalla minor violenza da parte dei “carcerieri”. «Alla fine degli anni ‘50 si parla di carcere clinica, in cui viene introdotto lo studio scientifico della persona in vista del trattamento individualizzato», aggiunge il magistrato. Tuttavia, le terribili condizioni di vita nelle carceri italiane e le marginalità sociali che vi vivevano furono messe in luce con i moti del ’68 e con i teorici delle “istituzioni totali” (tra questi Erving Goffman) i quali rigettarono il carattere totalizzante di tale istituzione. Ed è in quella stagione di carcere politicizzato ­ – per le commistioni con le lotte sindacali e operaie ­– che prende avvio la Riforma del 1975. Con la legge n. 354 del 1975 si introdussero diversi elementi di novità nel panorama dell’esecuzione penale. La prima, e più dal carattere apparentemente formale, fu l’avvio della disciplina in materia mediante fonte primaria, e dunque mediante legge. Nessun regolamento, e quindi una fonte secondaria, poteva più introdurre modifiche all’Ordinamento Penitenziario come in precedenza. Ed inoltre, per merito della Legge 354/1975, a norma dell’art.134 Cost., la Corte costituzionale può sindacare le prescrizioni contenute all’interno del sistema penitenziario in quanto trattasi di una fonte primaria. Sul piano sostanziale, all’Art.1 della legge in questione, fu inserito il rispetto del principio di umanità, della dignità del ristretto e del divieto di discriminazione durante il trattamento penitenziario. All’art.13 il principio di individualizzazione del trattamento basato sull’ “osservazione scientifica della personalità” al fine della rieducazione e del reinserimento sociale. All’art.17 venne per la prima volta concessa la possibilità dell’ingresso in carcere di figure professionali esterne e del volontariato sempre al fine del trattamento rieducativo e risocializzante. Fu tradotta in legge la flessibilità del trattamento, la volontarietà della sua sottoposizione, il rispetto dei diritti inviolabili della persona reclusa (Art.4). Tuttavia, non sono mancati negli anni dei nodi irrisolti, resi ancor più evidenti dal crescente sovraffollamento all’interno degli istituti di pena negli anni successivi al 1990. C’è chi come Giovanni Maria Flick reputa la Riforma del 1975 “Una rivoluzione promessa e poi una rivoluzione tradita”.

 

Maria Sole Lupi

Fonti:

https://www.youtube.com/watch?v=-pm3Lrl15Qk&t=5218s

https://www.gazzettaufficiale.it/eli/id/1975/08/09/075U0354/sg