Articolo di Maria Sole Lupi
Lo spazio della pena è una delle tematiche più importanti e più dibattute quando ci riferiamo ad una pena costituzionalmente intesa. L’Art.27 comma 3 della Costituzione cita: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”.
Ebbene, la prima riflessione che occorrerebbe fare è certamente relativa allo spazio di quale tipo di pena. Tuttavia, trovandoci ad oggi in una logica penale ancora prettamente di tipo “carcerocentrica”, è d’obbligo “limitarsi” allo sconto della pena in carcere.
Un istituto detentivo che risponda ai requisiti del trattamento umano e teso alla rieducazione del condannato è certamente quello immaginato dalla riforma del 1975, il quale mette nero su bianco la necessità di spazi utili alla rieducazione e alla risocializzazione per il reinserimento sociale del reo. Ovvero di spazi pensati per l’attività scolastica e formativa, spazi di lavoro e qualificazione professionale, spazi per attività socio-ricreative e di spazi dedicati agli incontri con i familiari e i legali, oltre che per l’assistenza sanitaria e il culto religioso.
Lo spazio della pena detentiva, ossia lo spazio del carcere, dovrebbe avvalersi di un insieme di spazi sia interni che esterni volti a garantire, secondo gli Artt. 2 e 3 della Costituzione italiana, il rispetto della pari dignità della persona reclusa[1] e dei suoi diritti inviolabili, in quanto il carcere costituisce “una formazione sociale” ove il detenuto svolge la sua personalità[2].
Ad oggi, timida è stata la risposta attuativa alla normativa prodotta in termini di spazi, nonostante il legislatore sia stato chiamato più volte ad intervenire sul miglioramento dei luoghi della vita carceraria. La recente riforma dell’Ordinamento Penitenziario, con i d.lgs 2 ottobre 2018 n. 123 e n. 124, ha normativamente disposto la necessità di locali più idonei alle attività sportive, ricreative e religiose[3], l’aumento delle ore d’aria, incremento dell’assistenza sanitaria, maggiore attenzione alle attività lavorative, alla formazione professionale e scolastica e al rapporto con le famiglie[4].
Tuttavia, a causa anche dei blocchi dovuti alla pandemia, non è affatto migliorata la situazione sulla riqualificazione degli spazi detentivi rispetto a quella antecedente al 2018. Lo stato delle carceri, come riportato periodicamente dall’Osservatorio di Antigone, è ancora fortemente inadeguato a garantire la finalità rieducativa della pena sia per il suo stato architettonico e edilizio, spesso in scarso stato di manutenzione, sia per le condizioni igieniche e sanitarie a volte precarie e una generale carenza di spazi dedicati ad attività sociali, ricreative o lavorative[5].
Emergono spazi inadatti e insufficienti anche per via di un sovraffollamento sempre crescente, dovuto all’aumento continuo della popolazione carceraria (soprattutto di genere maschile) dal 2013 ad oggi e che ha visto - solo nello scorso anno - il decrescere di 10.000 unità in buona parte grazie al d.l. 17 marzo 2020, n. 18, c.d. decreto 'Cura Italia'.
Come ben affermato di recente dal Garante Nazionale delle persone private della libertà personale Mauro Palma: «Occorre non tanto soffermarsi sulle dimensioni della cella, che dovrebbe ridursi ad una semplice camera di pernottamento, ma occorre pensare a tutta la parte esterna ad essa in cui vive la persona attuando una concezione spaziale diversa del carcere». (Mauro Palma, “Pene e misure non detentive tra scelte legislative, applicazioni amministrative e indirizzi della magistratura requirente” in Giornata inaugurale del Master di II livello in «Diritto penitenziario e Costituzione» VIII edizione).
Questa osservazione si allaccia necessariamente ad un secondo punto toccato anche dai relatori del Convegno citato (tra questi i professori Giovanni Serges, Marco Ruotolo, Capo DAP Bernardo Petralia e altri), ossia quello della pluralità degli attori che debbono, o almeno dovrebbero, confluire all’interno del carcere.
Se, dunque, guardiamo alla dignità della persona reclusa, è doveroso sottolineare che si necessitano spazi, non solo in termini di quantità, ma anche di qualità. Ossia di spazi affinché si concretizzi la disposizione contenuta con l’ultima modifica apportata alle Regole Penitenziarie Europee nella Raccomandazione R(2006) 2 del Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa all’articolo 5: «la vita in carcere deve svolgersi in modo possibilmente non difforme da quella che si svolge all’esterno»[6].
Tra questi, a titolo di esempio, lo spazio della pena dovrebbe includere di specifiche aree di accoglienza per le famiglie e di stanze dell’affettività in cui poter avere privatamente un’interazione sana tra genitori detenuti e figli e tra partner. La possibilità di godere della presenza di questi luoghi, sia essi esterni che interni agli edifici carcerari, contribuirebbe a ridefinire il senso di responsabilità del detenuto e della detenuta verso la propria famiglia - e principalmente nei confronti dei propri figli -, che un colloquio di un’ora o poco più non riesce a dare.
Tra i punti lasciati in sospeso dalla Riforma del 2018, e che contribuisce a delineare fortemente la situazione attuale, vi è senza dubbio la forte discrepanza tra gli istituti di pena italiani circa alcune modalità di trattamento e di svolgimento della vita carceraria della popolazione detenuta. Tra le cause di questo “gap” ad essere state lasciate irrisolte nella forma e nella sostanza, ve ne sono due sicuramente più importanti: la prima è la “scuola di pensiero” a cui appartiene il direttore del carcere, il quale può essere più o meno incline ad aprire la struttura ad iniziative provenienti dall’esterno; la seconda, strettamente collegata alla prima, è la dipendenza dall’offerta del territorio nel quale il carcere si colloca. Si rende necessario, pertanto, che - affinché sia effettiva la finalità rieducativa della pena - si propenda verso l’uniformazione della vita intramuraria degli istituti penitenziari con particolare riguardo a quei modelli virtuosi circa il rispetto della dignità della persona e dei diritti umani fondamentali.
Infine, che il carcere - in quanto “spazio della pena” non alieno alla società - sia strettamente collegato allo stato in cui vige la società al suo esterno e dunque anche alle opportunità che il territorio può offrire in merito alle opportunità professionali, formative e assistenziali.
Maria Sole Lupi
[1] Art.3 comma 1 Cost.: "Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”.
[2] Art.2 Cost.: "La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l'adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica, sociale ".
[3] Art 5 Ord. penitenziario modificato dal D.Lgs. 2 ottobre 2018, n. 124 : “Gli edifici penitenziari devono essere dotati di locali per le esigenze di vita individuale e di locali per lo svolgimento di attività lavorative, formative e, ove possibile, culturali, sportive e religiose”.
[4] Art. 15 Ord. penitenziario modificato dal D.Lgs. 2 ottobre 2018, n. 124: “Il trattamento del condannato e dell'internato è svolto avvalendosi principalmente dell'istruzione, della formazione professionale, del lavoro, della partecipazione a progetti di pubblica utilità, della religione, delle attività culturali, ricreative e sportive e agevolando opportuni contatti con il mondo esterno e i rapporti con la famiglia”.
[5] XIII Rapporto di Antigone: “Lo spazio del carcere e per il carcere” di Alice Franchina.
[6] Art.5 della Raccomandazione R(2006) 2 del Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa
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