VOLONTARI IN CARCERE: ECCO CHI SONO E COSA FANNO
Chi, per qualsiasi motivo, ha conosciuto il mondo del carcere, ha spesso voglia di impegnarsi come volontario per aiutare chi ci vive.
Articolo di Maurizio Ermisino di Retisolidali.it
Il carcere è un mondo a sé, con le sue regole e i suoi ritmi. Una volta conosciuto è difficile scrollarselo di dosso, che lo si abbia sperimentato come detenuti, come insegnanti o legali, o con qualsiasi altra missione si sia entrati tra quelle mura. Molte delle persone che, da diversi punti di vista, hanno conosciuto il carcere tendono a tornarci, da volontari, per aiutare chi è lì dentro. Semi di Libertà Onlus ha organizzato un corso on line, Volontario dentro e fuori il carcere, per far conoscere molti aspetti utili a chi vuole occuparsi di questo mondo così delicato, e hanno aperto un gruppo su Facebook per discuterne (Volontari dentro e fuori il carcere). È qui che abbiamo conosciuto molte delle storie che vi raccontiamo, per capire che cosa c’è dentro chi sceglie di fare volontariato in carcere.
Uno sportello d’ascolto
Maria Teresa Caccavale ha insegnato in carcere per 27 anni, dal 1991. Quel mondo le è rimasto dentro e oggi ha un’associazione, Happy Brigde, che si occupa di varie attività con i detenuti. L’incontro con quel mondo è arrivato per caso. «Nel 1991 vinsi il concorso a cattedra, e dovevo scegliere una sede», ricorda. «La sede non era il carcere ma la scuola dove avevo insegnato precedentemente. Ma la cattedra era sparita. L’unica che rimaneva nella zona era Rebibbia. È stato un caso, al carcere non ci avevo mai pensato».
Una tombola solidale, organizzata da Happy Bridge
«All’inizio avevo un po’ paura», racconta. «Colpa delle leggende che descrivono il carcere e i detenuti come persone pericolose. Invece è stata la scoperta di un mondo che mi ha dato tantissimo». In carcere un insegnante non fa mai solo l’insegnante. «Cercavo di capire come funzionava la struttura e così si creava un rapporto confidenziale con i detenuti, che mi chiedevano di intercedere con l’area educativa, o di aiutarli con delle pratiche in sospeso», rievoca Maria Teresa Caccavale. «Ho incominciato a fare sostegno alle famiglie, a chi aveva problemi con i figli e le mogli, chi aveva bisogno di parlare con gli insegnanti dei figli». E così è nata un’analisi dei bisogni reali delle persone che vivevano in carcere. «La scuola c’era, c’erano i corsi di ceramica, l’università, lo sport. Mancava uno sportello di ascolto, dei volontari che andassero là e ascoltassero le necessità dei detenuti» racconta Maria Teresa. «Mancava lo sportello legale, un avvocato che gratuitamente desse delle consulenze ai detenuti. Ho pensato di fare un corso di yoga, un’attività alternativa alla fisicità dello sport ordinario, che ti dà una disciplina di vita, insegnamenti che ti fanno evolvere. È stata un’esperienza bella con molta difficoltà, non a causa della direzione, ma del contesto: non avevamo una sede, una stanza, abbiamo dovuto farlo nei corridoi. Abbiamo pensato a un laboratorio linguistico di spagnolo. E un laboratorio di scrittura».
Il 14 febbraio 2012 è nata l’associazione Happy Bridge. In questi anni ha organizzato concerti e ha fatto scrivere le persone. Così è appena nato un libro, Pensieri reclusi. E in questi anni arrivate nate tante soddisfazioni, come quella di vedere un proprio allievo di yoga diventare riflessologo plantare, e un altro maestro di yoga in Albania.
Lo yoga e i traumi
A proposito di yoga, c’è chi ha deciso di mettere la sua esperienza al servizio dei detenuti del carcere di Verona. È Roberto Cagliero, e insegna meditazione dal 2003. Anche la sua esperienza è iniziata per caso. «Tre anni fa un gruppo di Verona che gestisce dei cavalli che vivono nel carcere di Verona e di cui si occupano i detenuti per un corso che sfocia in un diploma di tecnico di scuderia, mi ha chiesto di partecipare con una lezione di yoga», ci ha raccontato. «I detenuti non sono a loro agio con gli animali: stando al chiuso, in situazioni potenzialmente fragili, il contatto on l’animale un po’ di paura la suscita sempre».
Yoga in carcere: non è facile insegnarlo, ma è utile
Era da un po’ che Roberto pensava al volontariato, e l’occasione ha dato il via a una nuova idea. «Ho coinvolto altri insegnanti di yoga e meditazione, perché c’è stata la possibilità di aprire l’attività anche nella sezione femminile, dove insegnano tre ragazze» racconta Roberto. «Tre anni fa ho fatto un corso a Londra con un’associazione americana, Prison Yoga Project, che fa una serie di seminari in giro per il mondo per insegnare a relazionarsi con i detenuti, e gli esercizi da non fare per non scatenare reazioni avverse».
«I detenuti negli Stati Uniti per il 90% hanno avuto traumi, prima di andare in carcere», spiega. «E ci sono delle modalità che possono fare da trigger, riportarli nel momento in cui hanno subito il trauma e possono avere reazioni che li destabilizzano. Toccare una persona sulla spalla da dietro è qualcosa che lo manda in tilt. Esercizi in cui ti metti a 90 gradi possono ricordare una sgradevole ispezione, o quelli in cui incroci le mani potrebbero far pensare all’arresto. Sono persone sempre in allerta, che prendono farmaci per dormire e possono abusarne». L’impatto con il carcere, per Roberto Cagliero, non è stato difficile, anzi. «Erano tre anni che andavano dentro con i cavalli» racconta. «Non ho trovato grosse differenze tra un gruppo di detenuti e uno di allievi normali. Certo, tutto è più rallentato. Il trauma ti porta a quel processo che si chiama numbing, un rifiuto della relazione con la realtà».
Tornare in carcere, da volontario
C’è poi chi si trova a fare volontariato in carcere perché in carcere c’è stato, come ospite. Marco Costantini è stato un residente del carcere di Rebibbia e quel mondo gli è rimasto dentro, ma nel modo migliore. Oggi lavora con il Partito Radicale, ma non ha mai smesso di aiutare chi è rimasto in carcere, da volontario, da solo o con realtà organizzate. «Ho conosciuto tante persone, tanti volontari» ci racconta. «Io ho fatto l’università, e vedere tante ragazze che donavano le ore del loro pomeriggio – invece che stare con il ragazzo o con le famiglie – per farci studiare, per farci capire il passaggio di un esame, mi ha fatto capire che è un donare ti fa stare bene».
«Ho cominciato ad aiutare tante persone che non avevano possibilità economica, piccole cose pratiche», continua. «Poi ho iniziato un percorso: abbiamo cominciato a dare un supporto agli stranieri, a fare per loro delle pratiche». «Sono cose che mi vengono in maniera normale, neanche mi sforzo a farle» confessa Marco. «Faccio volontariato come singolo, ma collaborato con Sant’Egidio, ad esempio per i pranzi di Natale. Ma cerchi di fare un po’ tutto, per donare un po’ del tuo tempo a persone che hanno bisogno». E in questo modo arrivano anche le soddisfazioni. «Abbiamo voluto fare un evento a Rebibbia contro la violenza sulle donne» ricorda. «Tutti mi dicevano che era impossibile. Invece sono riuscito a portare l’avvocatessa Lucia Annibali. Per me è stata una grande rivincita: ha fatto capire che anche i detenuti hanno una coscienza, dentro hanno molto, ma se non vengono aiutati non possono crescere».
Imparare a fare il volontario
La vita da volontaria deve ancora iniziare invece per Simona Ciaffone, oggi tirocinante al Tribunale di Sorveglianza di Roma e praticante abilitato in uno studio di diritto penale. Ha appena seguito il corso di Semi di Libertà Onlus e sta per dare vita a una sua associazione. «Tratto quotidianamente la materia e l’ho sempre vista da fuori», spiega. «E mi sono resa conto di quanto sia difficile fare volontariato in carcere. Ho imparato a comunicare con i detenuti e mi sono detta: vorrei imparare un linguaggio che non sia solo quello prettamente giuridico. Perché le persone hanno bisogno di altre speranze che non siano le vie legali».
C’è allora bisogno di una formazione, di trovare un nuovo modo di relazionarsi. Il corso è servito a questo, e a togliere quel poco di pregiudizio che si rischia di avere in questi casi. «Il percorso di studi ti preparava a una realtà piena di crimine. Avvicinandomi mi sono resa conto di quanto possano incidere le situazioni personali, contesti di provenienza, malattie, discriminazioni. Accanto al sistema penale deve esserci un appoggio umano, che ti tira fuori da quei contesti di provenienza».
«Nel momento in cui ci rapportiamo al detenuto, come professionisti, dobbiamo avere un po’ di distacco, dobbiamo distinguere le posizioni», continua. «Con il volontariato è un altro tipo di posizione ancora, di linguaggio, è un contesto diverso». Già frequentando alcuni luoghi come il Pub Vale La Pena ci si può rendere conto di che persone sono quelle che cercano di ripartire dopo il carcere, o in attesa di finire di scontare la pena. «Chi è entrato a far parte di percorsi riabilitativi e alternativi al carcere è molto disponibile al dialogo, a raccontarti da dove è partito» ci spiega la volontaria. «Chi si vede negato questo percorso fa più fatica. In una delle lezioni si diceva di fare attenzione a non lasciare da parte chi ha più fatica ad esprimersi».
Il volontario fa di più
Sono storie diverse una dall’altra, con il comun denominatore dell’importanza del volontariato in un mondo come questo. «Il terzo settore è importante per coprire le carenze a cui non può far fronte lo Stato,» concorda Maria Teresa Caccavale. «Durante il lockdown si è visto: certe persone si sono abbrutite completamente, c’è stato un arretramento».
«I volontari forniscono quello che lo Stato dovrebbe fornire, ma vengono proprio in sua sostituzione» commenta Simona Ciaffone. «Il volontariato è fondamentale non solo perché aiuta ad accompagnare un percorso educativo, ma lo fornisce ». «È impensabile che il sistema possa sopravvivere senza il volontariato» ragiona Roberto Cagliero. «Ma la volontà di riequilibrare le persone o punirle non è una decisione delle singole strutture, ma l’atteggiamento che il Ministero della Giustizia ha nei confronti del detenuto. E questo in Italia è disastroso»
articolo a cura di Maurizio Ermisino di retisolidali.it
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