lunedì 3 maggio 2021

EVOLUZIONE DELLA PENA di Maria Sole Lupi

Vi proponiamo un articolo sull’Evoluzione della Pena  scritto per noi di Happy Bridge dalla nostra volontaria e collaboratrice Maria Sole Lupi, dott.ssa in Scienze Politiche e Relazioni Internazionali che ha affrontato nella sua tesi di laurea il tema del diritto alla genitorialità in carcere. Da alcuni anni lei si sta occupando dell’approfondimento dei diritti umani nell’esecuzione penale, con particolare attenzione al diritto alla genitorialità dei reclusi e al diritto del minore al mantenimento del legame con il genitore detenuto.

Ora sta continuando la sua specializzazione con il Master in Diritto Penitenziario e Costituzione all’Università degli Studi Roma Tre.

Buona lettura!

 



L’evoluzione della pena: una prospettiva storica

Malgrado, ad oggi, il carcere rappresenti una discarica sociale, la cui composizione della popolazione detentiva rispecchia de facto le criticità della società contemporanea e dunque il suo fallimento, l’esecuzione della pena ha subito nel corso del Novecento una grande trasformazione. Il mutamento storico, che ha accompagnato la produzione legislativa sulla pena, ne ha modificato il suo concetto sia sul piano formale che sostanziale. Prima che i grandi e illustri protagonisti della Resistenza e della storia repubblicana italiana potessero forgiarne la sua “finalità rieducativa” all’interno del dettato costituzionale del 1948, la pena era stata priva di ogni riferimento al rispetto della dignità della persona umana e dei suoi diritti fondamentali. Dall’epoca liberale e per tutto il periodo fascista la pena in carcere era l’unica possibile e rappresentava una vera e propria elusione dell’individuo dalla società esterna. Come ci insegna il magistrato prof. Guido Neppi Modona, in una lezione al Master “Diritto Penitenziario e Costituzione” dell’Università Roma Tre del 2014, il carcere tra fine Ottocento e inizi Novecento non prevedeva alcuna forma di contatto con la realtà esterna se non attraverso poche possibilità di colloquio con i familiari mediante il controllo visivo e auditivo delle “guardie”. Era negato al detenuto l’accesso all’informazione, con la proibizione dell’ingresso nel carcere di giornali, specialmente se politicizzati. Il prof. Guido Neppi ci riporta un discorso parlamentare del 1921 di Filippo Turati, in cui disse: “i giornali sono banditi dalle carceri come cosa peccaminosa per i detenuti e per le guardie”. Mediante il Regolamento del 1891 su “Carceri e Riformatori”, infatti, si relegava il detenuto di allora a un’entità senza nome e senza personalità, da ghettizzare e da emarginare. Non erano previste attività di rieducazione né di risocializzazione, se non le pratiche religiose e il reclutamento di lavoratori non remunerati. Se con un Regio decreto del 1921 erano state privilegiate in qualche forma le istanze rieducative della pena di scuola positiva, il Codice Rocco del 1930 – approvato nel periodo fascista – e poi le leggi successive, ne avevano contraddistinto una involuzione nei termini di umanità, confermando con maggior rigore il carattere afflittivo e punitivo della pena. Come riporta il magistrato, il carcere fascista fu a tutti gli effetti una forma di controllo politico e sociale ai danni dell’autodeterminazione dell’individuo dell’epoca, così come lo divenne la scuola e l’esercito. La presenza della religione nel carcere – mediante la figura del cappellano – era uno dei mezzi principali di indottrinamento al fascismo. Nel Decennale delle leggi fasciste del 1941, il Guardasigilli dell’epoca, Dino Grandi, pubblicava due volumi dal titolo “Bonifica Umana”. Sebbene il carcere fosse previsto come extrema ratio – inquadrato laddove non si riusciva a portare all’ordine persone difficili – in quella gerarchia dei mezzi di controllo definita dalle case di rigore e dalle scuole differenziali, esso privava l’individuo di ogni residuo di personalità fino ai provvedimenti di polizia a carattere eliminativo, tra i quali il confino. Un trattamento simbolo di tutta l’involuzione totalitaria di stampo nazista. Durante la Repubblica di Salò nel biennio 1944-45 le carceri prendevano la forma di campi di lavoro e di concentramento, di reclutamento di personale rivoluzionario, bandito, dei detenuti politici della resistenza. Quando finalmente iniziarono i lavori della costituente, tra l’estate e l’autunno nel 1946, furono numerosi gli ex detenuti politici e i protagonisti autorevoli della Resistenza che vi presero parte e che plasmarono il dibattito intorno alla ridefinizione della pena.  L’Art.27 della Costituzione della Repubblica Italiana assieme agli Artt.2, 3 e 13, rappresentano il reale cambio di rotta sull’esecuzione penale che si impose a partire da quel periodo. Erano tante le speranze di riforma, tuttavia, si dovette attendere il 1975 affinché la finalità rieducativa della pena potesse essere convertita in legge. Quel ritardo della riforma dell’Ordinamento Penitenziario lasciò in vigore per quasi trent’anni il Regolamento penitenziario di epoca fascista, in aperto contrasto con il contenuto della Costituzione del ’48. Il carcere degli anni ’50 è definito dal prof. Guido Neppi come “un carcere pacificato e morale”, contraddistinto dall’inizio delle visite da parte dei pontefici, del ruolo indiscusso dei cappellani e dalla minor violenza da parte dei “carcerieri”. «Alla fine degli anni ‘50 si parla di carcere clinica, in cui viene introdotto lo studio scientifico della persona in vista del trattamento individualizzato», aggiunge il magistrato. Tuttavia, le terribili condizioni di vita nelle carceri italiane e le marginalità sociali che vi vivevano furono messe in luce con i moti del ’68 e con i teorici delle “istituzioni totali” (tra questi Erving Goffman) i quali rigettarono il carattere totalizzante di tale istituzione. Ed è in quella stagione di carcere politicizzato ­ – per le commistioni con le lotte sindacali e operaie ­– che prende avvio la Riforma del 1975. Con la legge n. 354 del 1975 si introdussero diversi elementi di novità nel panorama dell’esecuzione penale. La prima, e più dal carattere apparentemente formale, fu l’avvio della disciplina in materia mediante fonte primaria, e dunque mediante legge. Nessun regolamento, e quindi una fonte secondaria, poteva più introdurre modifiche all’Ordinamento Penitenziario come in precedenza. Ed inoltre, per merito della Legge 354/1975, a norma dell’art.134 Cost., la Corte costituzionale può sindacare le prescrizioni contenute all’interno del sistema penitenziario in quanto trattasi di una fonte primaria. Sul piano sostanziale, all’Art.1 della legge in questione, fu inserito il rispetto del principio di umanità, della dignità del ristretto e del divieto di discriminazione durante il trattamento penitenziario. All’art.13 il principio di individualizzazione del trattamento basato sull’ “osservazione scientifica della personalità” al fine della rieducazione e del reinserimento sociale. All’art.17 venne per la prima volta concessa la possibilità dell’ingresso in carcere di figure professionali esterne e del volontariato sempre al fine del trattamento rieducativo e risocializzante. Fu tradotta in legge la flessibilità del trattamento, la volontarietà della sua sottoposizione, il rispetto dei diritti inviolabili della persona reclusa (Art.4). Tuttavia, non sono mancati negli anni dei nodi irrisolti, resi ancor più evidenti dal crescente sovraffollamento all’interno degli istituti di pena negli anni successivi al 1990. C’è chi come Giovanni Maria Flick reputa la Riforma del 1975 “Una rivoluzione promessa e poi una rivoluzione tradita”.

 

Maria Sole Lupi

Fonti:

https://www.youtube.com/watch?v=-pm3Lrl15Qk&t=5218s

https://www.gazzettaufficiale.it/eli/id/1975/08/09/075U0354/sg

 



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