Il progetto si propone di trasmettere ai giovani valori etici, di educazione civica e di legalità, al fine di prevenire atti criminali, di bullismo, di violenza, razzismo, dipendenza da sostanze stupefacenti, ecc., azioni che segnano drammaticamente la vita delle persone e quella della propria famiglia in modo irreversibile. La maggior parte dei giovani oggi non è consapevole delle conseguenze che possono scaturire da azioni che possono apparentemente sembrare innocue o poco rilevanti, perché non conoscono il carcere e la privazione della libertà. Per questo motivo, l’Associazione Happy Bridge che da anni si occupa di progetti di assistenza e reinserimento delle persone svantaggiate ed in particolare di persone private della libertà cercando di creare quel ponte indispensabile tra il carcere ed il mondo esterno, ha ritenuto fondamentale oggi rivolgere la propria attenzione anche a favore della prevenzione della criminalità, ritenendo che sarebbe più efficace operare in tale direzione. I dati nazionali ed internazionali ci rivelano le alte percentuali di atti di violenza, di bullismo, di uso di sostanze stupefacenti, abbandono scolastico, ecc. tra i giovani, e che pertanto è importante inserire nei processi educativi discipline ed attività che riducano tali percentuali ed educhino i giovani ad un approccio più sano alle relazioni, relazioni che devono essere meno conflittuali e più costruttive e partecipative ai processi di cambiamento sociale. Per questo ci serviamo di studi, esperienze ed attività di specialisti nella visione di nuovi insegnamenti , quali ad esempio quelli che si riferiscono al NUOVO UMANESIMO del Prof. Orazio Parisotto (dal libro La Rivoluzione Globale, per un Nuovo Umanesimo)Presidente della United Peacers, insegnamenti sulla base dei quali è stato condotto dalla Prof. Maria Vittoria Mulliri il progetto pilota di Educazione civica "Nuovo Umanesimo" nei Licei Scientifico, Classico e Artistico dell'IIS G. Galilei - T. Campailla di Modica(RG)(www.europaperigiovani2014.altervista.org),nonché di esperti di mediazione dei conflitti e di controllo delle emozioni. Il carcere va evitato, oltre che ripensato in ossequio ai dettati costituzionali (art.27 della costituzione). Gli interventi saranno pertanto condotti anche da persone esperte del mondo carcerario, nonché da ex persone detenute o loro familiari che illustrano le loro esperienze di vita (Antonella Leardi madre di Ciro Esposito). In questo progetto assume particolare rilevanza l’attività sportiva e specificatamente quella calcistica, legata alla storia di Fabrizio Maiello, che dopo una esperienza di vita criminale, e durante la sua permanenza in carcere e nell’Ospedale Psichiatrico Giudiziario, è riuscito a riscattarsi e a far emergere tutti i lati positivi della sua personalità. Oggi Fabrizio, insieme al suo pallone ipnotizzante e catartico, va nelle scuole e Università, e tra un palleggio e l’altro, racconta la sua storia agli studenti e docenti per sostenere i progetti a favore della legalità.
Correre dietro ad un pallone per raggiungere la libertà, la vittoria attraverso una sana competizione, dove chi vince è il gruppo e non il singolo. Uno sport quello del calcio attraverso il quale si può comprendere che nessuno vince da solo, così come nessuno si salva da solo. Comprendere che bisogna accettare le sconfitte, le cadute, le fragilità,senza che si generi violenza, una violenza che può uccidere, come è successo a Ciro Esposito ed altri ragazzi innocenti. I giovani hanno bisogno di riflettere sulle proprie azioni e su come gestire la propria emotività incanalandola positivamente.
MODALITA’ OPERATIVE
I° Incontro
- Breve presentazione dell’Associazione Happy Bridge ODV
- Il ruolo delle Associazioni e l’importanza del volontariato
- Breve illustrazione del sistema penitenziario italiano
- Presentazione di Fabrizio Maiello e la sua storia
- Riproduzione di un video su storie di bullismo e violenza
- Lo sport di gruppo(calcio) come forma di inclusione e riabilitazione
- Dibattito e questionario
II° Incontro
- Introduzione al processo di mediazione
- La mediazione per la risoluzione dei conflitti
- La figura del mediatore nelle scuole
- Casi pratici
- Dibattito e questionario
Prima di ogni incontro verrà fornito alle scuole il materiale utile alla preparazione dei ragazzi. Al termine degli incontri verrà donato all’Ente ospitante un pallone simbolo della legalità.
Documenti da visionare e consultare dai siti web: www.happy-bridge.blogspot.it www.unitedpeacers.it www.europaperigiovani2014.altervista.org Abstract della Dott.ssa Martina Vallesi Google: Storia di Fabrizio Maiello Libro: La Rivoluzione globale per un nuovo Umanesimo del Prof. Orazio Parisotto
Referente del Progetto Prof. Maria Teresa Caccavale Presidente dell’Associazione Happy Bridge Ambasciatrice Epale per l’educazione degli adulti Membro della United Peacers Coordinatore del Progetto di educazione civica nelle carceri
Lo spazio della
pena è una delle tematiche più importanti e più dibattute quando ci riferiamo
ad una pena costituzionalmente intesa. L’Art.27 comma 3 della Costituzione
cita: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di
umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”.
Ebbene, la
prima riflessione che occorrerebbe fare è certamente relativa allo spazio di
quale tipo di pena. Tuttavia, trovandoci ad oggi in una logica penale ancora prettamente
di tipo “carcerocentrica”, è d’obbligo “limitarsi” allo sconto della pena in
carcere.
Un istituto
detentivo che risponda ai requisiti del trattamento umano e teso alla
rieducazione del condannato è certamente quello immaginato dalla riforma del
1975, il quale mette nero su bianco la necessità di spazi utili alla
rieducazione e alla risocializzazione per il reinserimento sociale del reo. Ovvero
di spazi pensati per l’attività scolastica e formativa, spazi di lavoro e
qualificazione professionale, spazi per attività socio-ricreative e di spazi
dedicati agli incontri con i familiari e i legali, oltre che per l’assistenza
sanitaria e il culto religioso.
Lo spazio
della pena detentiva, ossia lo spazio del carcere, dovrebbe avvalersi di un
insieme di spazi sia interni che esterni volti a garantire, secondo gli Artt. 2
e 3 della Costituzione italiana, il rispetto della pari dignità della persona
reclusa[1] e dei suoi diritti
inviolabili, in quanto il carcere costituisce “una formazione sociale” ove il
detenuto svolge la sua personalità[2].
Ad oggi, timida
è stata la risposta attuativa alla normativa prodotta in termini di spazi, nonostante
il legislatore sia stato chiamato più volte ad intervenire sul miglioramento
dei luoghi della vita carceraria.
La recente riforma dell’Ordinamento Penitenziario, con i d.lgs 2
ottobre 2018 n. 123 e n. 124, ha normativamente disposto la necessità di locali
più idonei alle attività sportive, ricreative e religiose[3], l’aumento delle ore
d’aria, incremento dell’assistenza sanitaria, maggiore attenzione alle attività
lavorative, alla formazione professionale e scolastica e al rapporto con le
famiglie[4].
Tuttavia, a
causa anche dei blocchi dovuti alla pandemia, non è affatto migliorata la
situazione sulla riqualificazione degli spazi detentivi rispetto a quella
antecedente al 2018. Lo stato delle carceri, come riportato periodicamente dall’Osservatorio
di Antigone, è ancora fortemente inadeguato a garantire la finalità rieducativa
della pena sia per il suo stato architettonico e edilizio, spesso in scarso
stato di manutenzione, sia per le condizioni igieniche e sanitarie a volte
precarie e una generale carenza di spazi dedicati ad attività sociali,
ricreative o lavorative[5].
Emergono spazi
inadatti e insufficienti anche per via di un sovraffollamento sempre crescente,
dovuto all’aumento continuo della popolazione carceraria (soprattutto di genere
maschile) dal 2013 ad oggi e che ha visto - solo nello scorso anno - il
decrescere di 10.000 unità in buona parte grazie al d.l. 17 marzo 2020, n. 18,
c.d. decreto 'Cura Italia'.
Come ben
affermato di recente dal Garante Nazionale delle persone private della libertà
personale Mauro Palma:«Occorre non
tanto soffermarsi sulle dimensioni della cella, che dovrebbe ridursi ad una
semplice camera di pernottamento, ma occorre pensare a tutta la parte esterna
ad essa in cui vive la persona attuando una concezione spaziale diversa del
carcere». (Mauro Palma, “Pene e misure non detentive tra scelte
legislative, applicazioni amministrative e indirizzi della magistratura
requirente” in Giornata inaugurale del Master di II livello in «Diritto
penitenziario e Costituzione» VIII edizione).
Questa osservazione
si allaccia necessariamente ad un secondo punto toccato anche dai relatori del
Convegno citato (tra questi i professori Giovanni Serges, Marco Ruotolo, Capo
DAP Bernardo Petralia e altri), ossia quello della pluralità degli attori che
debbono, o almeno dovrebbero, confluire all’interno del carcere.
Se, dunque,
guardiamo alla dignità della persona reclusa, è doveroso sottolineare che si
necessitano spazi, non solo in termini di quantità, ma anche di qualità.
Ossia di spazi affinché si concretizzi la disposizione contenuta con l’ultima
modifica apportata alle Regole Penitenziarie Europee nella Raccomandazione R(2006)
2 del Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa all’articolo 5: «la
vita in carcere deve svolgersi in modo possibilmente non difforme da quella che
si svolge all’esterno»[6].
Tra questi, a
titolo di esempio, lo spazio della pena dovrebbe includere di specifiche aree
di accoglienza per le famiglie e di stanze dell’affettività in cui poter avere privatamente
un’interazione sana tra genitori detenuti e figli e tra partner. La possibilità
di godere della presenza di questi luoghi, sia essi esterni che interni agli
edifici carcerari, contribuirebbe a ridefinire il senso di responsabilità del
detenuto e della detenuta verso la propria famiglia - e principalmente nei
confronti dei propri figli -, che un colloquio di un’ora o poco più non riesce
a dare.
Tra i punti lasciati
in sospeso dalla Riforma del 2018, e che contribuisce a delineare fortemente la
situazione attuale, vi è senza dubbio la forte discrepanza tra gli istituti di
pena italiani circa alcune modalità di trattamento e di svolgimento della vita
carceraria della popolazione detenuta. Tra le cause di questo “gap” ad essere
state lasciate irrisolte nella forma e nella sostanza, ve ne sono due
sicuramente più importanti: la prima è la “scuola di pensiero” a cui appartiene
il direttore del carcere, il quale può essere più o meno incline ad aprire la
struttura ad iniziative provenienti dall’esterno; la seconda, strettamente
collegata alla prima, è la dipendenza dall’offerta del territorio nel quale il
carcere si colloca. Si rende necessario, pertanto, che - affinché sia effettiva
la finalità rieducativa della pena - si propenda verso l’uniformazione della
vita intramuraria degli istituti penitenziari con particolare riguardo a quei
modelli virtuosi circa il rispetto della dignità della persona e dei diritti
umani fondamentali.
Infine, che il
carcere - in quanto “spazio della pena” non alieno alla società - sia
strettamente collegato allo stato in cui vige la società al suo esterno e
dunque anche alle opportunità che il territorio può offrire in merito alle
opportunità professionali, formative e assistenziali.
Maria
Sole Lupi
[1] Art.3 comma 1 Cost.: "Tutti
i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge, senza
distinzione di sesso, di razza, di religione, di opinioni politiche, di
condizioni personali e sociali”.
[2] Art.2 Cost.: "La
Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo, sia come
singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e
richiede l'adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica,
economica, sociale ".
[3] Art 5 Ord. penitenziario
modificato dal D.Lgs. 2 ottobre 2018, n. 124 : “Gli edifici penitenziari devono
essere dotati di locali per le esigenze di vita individuale e di locali per lo
svolgimento di attività lavorative, formative e, ove possibile, culturali,
sportive e religiose”.
[4] Art. 15 Ord. penitenziario
modificato dal D.Lgs. 2 ottobre 2018, n. 124: “Il trattamento del condannato e
dell'internato è svolto avvalendosi principalmente dell'istruzione, della
formazione professionale, del lavoro, della partecipazione a progetti di
pubblica utilità, della religione, delle attività culturali, ricreative e
sportive e agevolando opportuni contatti con il mondo esterno e i rapporti con la
famiglia”.
[5] XIII Rapporto di Antigone:
“Lo spazio del carcere e per il carcere” di Alice Franchina.
[6] Art.5 della Raccomandazione
R(2006) 2 del Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa
Basta non guardare le porte e potrebbe sembrare un convitto, o anche un ospedale. Invece è proprio un carcere.
Siamo a Bollate, hinterland di Milano. Vengono da tutta Europa a trarre ispirazione da un modello che responsabilizza il detenuto e ne prepara il reinserimento. Con i suoi laboratori - e c'è perfino l'ippoterapia - è un ideale che funziona davvero.
Per ora, però, il sogno si ferma qui. La Casa di reclusione II di Bollate fa ancora figura di cattedrale nel deserto, rispetto alle altre.
Il carcere è un mondo a sé, con le sue regole e i suoi ritmi. Una
volta conosciuto è difficile scrollarselo di dosso, che lo si abbia
sperimentato come detenuti, come insegnanti o legali, o con qualsiasi
altra missione si sia entrati tra quelle mura. Molte delle persone che,
da diversi punti di vista, hanno conosciuto il carcere tendono a
tornarci, da volontari, per aiutare chi è lì dentro. Semi di Libertà Onlus ha organizzato un corso on line, Volontario dentro e fuori il carcere, per far conoscere molti aspetti utili a chi vuole occuparsi di questo mondo così delicato, e hanno aperto un gruppo su Facebook per discuterne (Volontari dentro e fuori il carcere). È
qui che abbiamo conosciuto molte delle storie che vi raccontiamo, per
capire che cosa c’è dentro chi sceglie di fare volontariato in carcere.
Uno sportello d’ascolto
Maria Teresa Caccavale ha insegnato in carcere per 27 anni, dal 1991. Quel mondo le è rimasto dentro e oggi ha un’associazione, Happy Brigde,
che si occupa di varie attività con i detenuti. L’incontro con quel
mondo è arrivato per caso. «Nel 1991 vinsi il concorso a cattedra, e
dovevo scegliere una sede», ricorda. «La sede non era il carcere ma la
scuola dove avevo insegnato precedentemente. Ma la cattedra era sparita.
L’unica che rimaneva nella zona era Rebibbia. È stato un caso, al
carcere non ci avevo mai pensato».
Una tombola solidale, organizzata da Happy Bridge
«All’inizio avevo un po’ paura», racconta. «Colpa delle leggende che
descrivono il carcere e i detenuti come persone pericolose. Invece è
stata la scoperta di un mondo che mi ha dato tantissimo».
In carcere un insegnante non fa mai solo l’insegnante. «Cercavo di
capire come funzionava la struttura e così si creava un rapporto
confidenziale con i detenuti, che mi chiedevano di intercedere con
l’area educativa, o di aiutarli con delle pratiche in sospeso», rievoca
Maria Teresa Caccavale. «Ho incominciato a fare sostegno alle famiglie, a
chi aveva problemi con i figli e le mogli, chi aveva bisogno di parlare
con gli insegnanti dei figli». E così è nata un’analisi dei bisogni
reali delle persone che vivevano in carcere. «La scuola c’era, c’erano i
corsi di ceramica, l’università, lo sport. Mancava uno sportello di ascolto, dei volontari che andassero là e ascoltassero le necessità dei detenuti» racconta Maria Teresa. «Mancava lo sportello legale, un avvocato che
gratuitamente desse delle consulenze ai detenuti. Ho pensato di fare
un corso di yoga, un’attività alternativa alla fisicità dello sport
ordinario, che ti dà una disciplina di vita, insegnamenti che ti fanno
evolvere. È stata un’esperienza bella con molta difficoltà, non a causa
della direzione, ma del contesto: non avevamo una sede, una stanza,
abbiamo dovuto farlo nei corridoi. Abbiamo pensato a un laboratorio
linguistico di spagnolo. E un laboratorio di scrittura».
Il 14 febbraio 2012 è nata l’associazione Happy Bridge. In questi anni ha organizzato concerti e ha fatto scrivere le persone. Così è appena nato un libro, Pensieri reclusi. E in questi anni arrivate nate tante soddisfazioni, come quella di vedere un proprio allievo di yoga diventare riflessologo plantare, e un altro maestro di yoga in Albania.
Lo yoga e i traumi
A proposito di yoga, c’è chi ha deciso di mettere la sua esperienza al servizio dei detenuti del carcere di Verona. È Roberto Cagliero,
e insegna meditazione dal 2003. Anche la sua esperienza è iniziata per
caso. «Tre anni fa un gruppo di Verona che gestisce dei cavalli che
vivono nel carcere di Verona e di cui si occupano i detenuti per un
corso che sfocia in un diploma di tecnico di scuderia, mi ha chiesto di
partecipare con una lezione di yoga», ci ha raccontato. «I detenuti non
sono a loro agio con gli animali: stando al chiuso, in situazioni
potenzialmente fragili, il contatto on l’animale un po’ di paura la
suscita sempre».
Yoga in carcere: non è facile insegnarlo, ma è utile
Era da un po’ che Roberto pensava al volontariato, e l’occasione ha dato il via a una nuova idea. «Ho coinvolto altri insegnanti di yoga e meditazione, perché
c’è stata la possibilità di aprire l’attività anche nella sezione
femminile, dove insegnano tre ragazze» racconta Roberto. «Tre anni fa ho
fatto un corso a Londra con un’associazione americana, Prison Yoga
Project, che fa una serie di seminari in giro per il mondo per insegnare a relazionarsi con i detenuti, e gli esercizi da non fare per non scatenare reazioni avverse».
«I detenuti negli Stati Uniti per il 90% hanno avuto traumi, prima di
andare in carcere», spiega. «E ci sono delle modalità che possono fare
da trigger, riportarli nel momento in cui hanno subito il
trauma e possono avere reazioni che li destabilizzano. Toccare una
persona sulla spalla da dietro è qualcosa che lo manda in tilt. Esercizi
in cui ti metti a 90 gradi possono ricordare una sgradevole ispezione, o
quelli in cui incroci le mani potrebbero far pensare all’arresto. Sono persone sempre in allerta,
che prendono farmaci per dormire e possono abusarne». L’impatto con il
carcere, per Roberto Cagliero, non è stato difficile, anzi. «Erano tre
anni che andavano dentro con i cavalli» racconta. «Non ho trovato grosse
differenze tra un gruppo di detenuti e uno di allievi normali. Certo,
tutto è più rallentato. Il trauma ti porta a quel processo che si chiama
numbing, un rifiuto della relazione con la realtà».
Tornare in carcere, da volontario
C’è poi chi si trova a fare volontariato in carcere perché in carcere c’è stato, come ospite. Marco Costantini
è stato un residente del carcere di Rebibbia e quel mondo gli è rimasto
dentro, ma nel modo migliore. Oggi lavora con il Partito Radicale, ma
non ha mai smesso di aiutare chi è rimasto in carcere, da volontario, da
solo o con realtà organizzate. «Ho conosciuto tante persone, tanti
volontari» ci racconta. «Io ho fatto l’università, e vedere tante
ragazze che donavano le ore del loro pomeriggio – invece che stare con
il ragazzo o con le famiglie – per farci studiare, per farci capire il
passaggio di un esame, mi ha fatto capire che è un donare ti fa stare bene».
«Ho cominciato ad aiutare tante persone che non avevano possibilità
economica, piccole cose pratiche», continua. «Poi ho iniziato un
percorso: abbiamo cominciato a dare un supporto agli stranieri, a fare
per loro delle pratiche». «Sono cose che mi vengono in maniera normale,
neanche mi sforzo a farle» confessa Marco. «Faccio volontariato come
singolo, ma collaborato con Sant’Egidio, ad esempio per i pranzi di
Natale. Ma cerchi di fare un po’ tutto, per donare un po’ del tuo tempo a
persone che hanno bisogno». E in questo modo arrivano anche le soddisfazioni.
«Abbiamo voluto fare un evento a Rebibbia contro la violenza sulle
donne» ricorda. «Tutti mi dicevano che era impossibile. Invece sono
riuscito a portare l’avvocatessa Lucia Annibali. Per me è stata una
grande rivincita: ha fatto capire che anche i detenuti hanno una coscienza, dentro hanno molto, ma se non vengono aiutati non possono crescere».
Imparare a fare il volontario
La vita da volontaria deve ancora iniziare invece per Simona Ciaffone,
oggi tirocinante al Tribunale di Sorveglianza di Roma e praticante
abilitato in uno studio di diritto penale. Ha appena seguito il corso di
Semi di Libertà Onlus e sta per dare vita a una sua associazione.
«Tratto quotidianamente la materia e l’ho sempre vista da fuori»,
spiega. «E mi sono resa conto di quanto sia difficile fare volontariato
in carcere. Ho imparato a comunicare con i detenuti e mi sono detta: vorrei imparare un linguaggio che non sia solo quello prettamente giuridico. Perché le persone hanno bisogno di altre speranze che non siano le vie legali».
Rita Bernardini intervista Maria Teresa Caccavale, presidente di Happy Bridge
C’è allora bisogno di una formazione, di trovare un nuovo modo di relazionarsi. Il corso è servito a questo, e a togliere quel poco di pregiudizio
che si rischia di avere in questi casi. «Il percorso di studi ti
preparava a una realtà piena di crimine. Avvicinandomi mi sono resa
conto di quanto possano incidere le situazioni personali, contesti di
provenienza, malattie, discriminazioni. Accanto al sistema penale deve esserci un appoggio umano, che ti tira fuori da quei contesti di provenienza».
«Nel momento in cui ci rapportiamo al detenuto, come professionisti,
dobbiamo avere un po’ di distacco, dobbiamo distinguere le posizioni»,
continua. «Con il volontariato è un altro tipo di posizione ancora, di
linguaggio, è un contesto diverso». Già frequentando alcuni luoghi come
il Pub Vale La Pena ci si può rendere conto di che persone sono quelle
che cercano di ripartire dopo il carcere, o in attesa di finire di
scontare la pena. «Chi è entrato a far parte di percorsi riabilitativi e
alternativi al carcere è molto disponibile al dialogo,
a raccontarti da dove è partito» ci spiega la volontaria. «Chi si vede
negato questo percorso fa più fatica. In una delle lezioni si diceva di
fare attenzione a non lasciare da parte chi ha più fatica ad
esprimersi».
Il volontario fa di più
Sono storie diverse una dall’altra, con il comun denominatore
dell’importanza del volontariato in un mondo come questo. «Il terzo
settore è importante per coprire le carenze a cui non può far fronte lo
Stato,» concorda Maria Teresa Caccavale. «Durante il lockdown si è
visto: certe persone si sono abbrutite completamente, c’è stato un
arretramento».
«I volontari forniscono quello che lo Stato dovrebbe fornire,
ma vengono proprio in sua sostituzione» commenta Simona Ciaffone. «Il
volontariato è fondamentale non solo perché aiuta ad accompagnare un
percorso educativo, ma lo fornisce ». «È impensabile che il sistema
possa sopravvivere senza il volontariato» ragiona Roberto Cagliero. «Ma
la volontà di riequilibrare le persone o punirle non è una decisione
delle singole strutture, ma l’atteggiamento che il Ministero della
Giustizia ha nei confronti del detenuto. E questo in Italia è
disastroso»
New world il nuovo programma televisivo di Luca Guardabascio, un regista italiano che guarda al sociale con occhio profondo, come un sub che scruta i sottofondi marini. Riportiamo la prima parte dell' intervista fatta alla nostra Presidente Maria Teresa Caccavale che parla della sua esperienza da docente e volontaria in carcere e del perché NESSUNO SI SALVA DA SOLO.
Leyla Pafumi intervista Maria Teresa Caccavale a New World
Vi
proponiamo un articolo sull’Evoluzione della Penascritto per noi di Happy Bridge dalla nostra
volontaria e collaboratrice Maria Sole Lupi, dott.ssa in Scienze Politiche e
Relazioni Internazionali che ha affrontato nella sua tesi di laurea il tema del
diritto alla genitorialità in carcere. Da alcuni anni lei si sta occupando
dell’approfondimento dei diritti umani nell’esecuzione penale, con particolare
attenzione al diritto alla genitorialità dei reclusi e al diritto del minore al
mantenimento del legame con il genitore detenuto.
Ora
sta continuando la sua specializzazione con il Master in Diritto Penitenziario
e Costituzione all’Università degli Studi Roma Tre.
Buona
lettura!
L’evoluzione della
pena: una prospettiva storica
Malgrado,
ad oggi, il carcere rappresenti una discarica sociale, la cui composizione
della popolazionedetentiva
rispecchia de facto le criticità della società contemporanea e dunque il
suo fallimento, l’esecuzione della pena ha subito nel corso del Novecento una
grande trasformazione. Il mutamento storico, che ha accompagnato la produzione
legislativa sulla pena, ne ha modificato il suo concetto sia sul piano formale
che sostanziale. Prima che i grandi e illustri protagonisti della Resistenza e
della storia repubblicana italiana potessero forgiarne la sua “finalità
rieducativa” all’interno del dettato costituzionale del 1948, la pena era stata
priva di ogni riferimento al rispetto della dignità della persona umana e dei
suoi diritti fondamentali. Dall’epoca liberale e per tutto il periodo fascista
la pena in carcere era l’unica possibile e rappresentava una vera e propria
elusione dell’individuo dalla società esterna. Come ci insegna il magistrato
prof. Guido Neppi Modona, in una lezione al Master “Diritto Penitenziario e
Costituzione” dell’Università Roma Tre del 2014, il carcere tra fine Ottocento
e inizi Novecento non prevedeva alcuna forma di contatto con la realtà esterna
se non attraverso poche possibilità di colloquio con i familiari mediante il
controllo visivo e auditivo delle “guardie”. Era negato al detenuto l’accesso
all’informazione, con la proibizione dell’ingresso nel carcere di giornali,
specialmente se politicizzati. Il prof. Guido Neppi ci riporta un discorso
parlamentare del 1921 di Filippo Turati, in cui disse: “i giornali sono banditi
dalle carceri come cosa peccaminosa per i detenuti e per le guardie”. Mediante
il Regolamento del 1891 su “Carceri e Riformatori”, infatti, si relegava il
detenuto di allora a un’entità senza nome e senza personalità, da ghettizzare e
da emarginare. Non erano previste attività di rieducazione né di
risocializzazione, se non le pratiche religiose e il reclutamento di lavoratori
non remunerati. Se con un Regio decreto del 1921 erano state privilegiate in
qualche forma le istanze rieducative della pena di scuola positiva, il Codice
Rocco del 1930 – approvato nel periodo fascista – e poi le leggi successive, ne
avevano contraddistinto una involuzione nei termini di umanità, confermando con
maggior rigore il carattere afflittivo e punitivo della pena. Come riporta il
magistrato, il carcere fascista fu a tutti gli effetti una forma di
controllo politico e sociale ai danni dell’autodeterminazione dell’individuo dell’epoca,
così come lo divenne la scuola e l’esercito. La presenza della religione nel
carcere – mediante la figura del cappellano – era uno dei mezzi principali di
indottrinamento al fascismo. Nel Decennale delle leggi fasciste del
1941, il Guardasigilli dell’epoca, Dino Grandi, pubblicava due volumi dal
titolo “Bonifica Umana”. Sebbene il carcere fosse previsto come extrema
ratio – inquadrato laddove non si riusciva a portare all’ordine persone
difficili – in quella gerarchia dei mezzi di controllo definita dalle case di
rigore e dalle scuole differenziali, esso privava l’individuo di ogni residuo
di personalità fino ai provvedimenti di polizia a carattere eliminativo, tra i
quali il confino. Un trattamento simbolo di tutta l’involuzione totalitaria di
stampo nazista. Durante la Repubblica di Salò nel biennio 1944-45 le carceri
prendevano la forma di campi di lavoro e di concentramento, di reclutamento di
personale rivoluzionario, bandito, dei detenuti politici della resistenza.
Quando finalmente iniziarono i lavori della costituente, tra l’estate e
l’autunno nel 1946, furono numerosi gli ex detenuti politici e i protagonisti
autorevoli della Resistenza che vi presero parte e che plasmarono il dibattito
intorno alla ridefinizione della pena.L’Art.27 della Costituzione della Repubblica Italiana assieme agli
Artt.2, 3 e 13, rappresentano il reale cambio di rotta sull’esecuzione penale
che si impose a partire da quel periodo. Erano tante le speranze di riforma,
tuttavia, si dovette attendere il 1975 affinché la finalità rieducativa della
pena potesse essere convertita in legge. Quel ritardo della riforma
dell’Ordinamento Penitenziario lasciò in vigore per quasi trent’anni il
Regolamento penitenziario di epoca fascista, in aperto contrasto con il
contenuto della Costituzione del ’48. Il carcere degli anni ’50 è definito dal
prof. Guido Neppi come “un carcere pacificato e morale”, contraddistinto
dall’inizio delle visite da parte dei pontefici, del ruolo indiscusso dei
cappellani e dalla minor violenza da parte dei “carcerieri”. «Alla fine degli
anni ‘50 si parla di carcere clinica, in cui viene introdotto lo studio
scientifico della persona in vista del trattamento individualizzato», aggiunge
il magistrato. Tuttavia, le terribili condizioni di vita nelle carceri italiane
e le marginalità sociali che vi vivevano furono messe in luce con i moti del
’68 e con i teorici delle “istituzioni totali” (tra questi Erving Goffman) i
quali rigettarono il carattere totalizzante di tale istituzione. Ed è in quella
stagione di carcere politicizzato – per le commistioni con le lotte sindacali
e operaie – che prende avvio la Riforma del 1975. Con la legge n. 354 del 1975
si introdussero diversi elementi di novità nel panorama dell’esecuzione penale.
La prima, e più dal carattere apparentemente formale, fu l’avvio della
disciplina in materia mediante fonte primaria, e dunque mediante legge. Nessun regolamento,
e quindi una fonte secondaria, poteva più introdurre modifiche all’Ordinamento
Penitenziario come in precedenza. Ed inoltre, per merito della Legge 354/1975,
a norma dell’art.134 Cost., la Corte costituzionale può sindacare le
prescrizioni contenute all’interno del sistema penitenziario in quanto trattasi
di una fonte primaria. Sul piano sostanziale, all’Art.1 della legge in
questione, fu inserito il rispetto del principio di umanità, della dignità del
ristretto e del divieto di discriminazione durante il trattamento
penitenziario. All’art.13 il principio di individualizzazione del trattamento
basato sull’ “osservazione scientifica della personalità” al fine della
rieducazione e del reinserimento sociale. All’art.17 venne per la prima volta
concessa la possibilità dell’ingresso in carcere di figure professionali
esterne e del volontariato sempre al fine del trattamento rieducativo e
risocializzante. Fu tradotta in legge la flessibilità del trattamento, la volontarietà
della sua sottoposizione, il rispetto dei diritti inviolabili della persona
reclusa (Art.4). Tuttavia, non sono mancati negli anni dei nodi irrisolti, resi
ancor più evidenti dal crescente sovraffollamento all’interno degli istituti di
pena negli anni successivi al 1990. C’è chi come Giovanni Maria Flick reputa la
Riforma del 1975 “Una rivoluzione promessa e poi una rivoluzione tradita”.