lunedì 12 luglio 2021

Sostenere e prevenire la detenzione: Intervista al presidente Dott.ssa Maria Teresa Caccavale

 

MILANOFREE.IT

 

 

 

Un’associazione di volontariato che attraverso la promozione di varie attività cerca di creare un ponte tra il carcere ed il mondo esterno per far si che ci siano sempre minori distanze tra il mondo dei cosiddetti “normali” e quello delle fragilità.
Maria Teresa Caccavale, Presidente dell’Associazione Happy Bridge, è stata docente di economia aziendale nel carcere di Rebibbia per 27 anni, ma continua ad occuparsi di istruzione degli adulti ed adulti ristretti sia come Ambasciatrice EPALE (piattaforma elettronica per l’educazione degli adulti), sia attraverso l’Associazione Happy Bridge in collaborazione con diversi Enti del terzo settore(UNIPAX, UNITRE, ecc), sostenendo tutte le iniziative a favore dei diritti umani attraverso attività culturali e formative.
 

 - Come nasce questa associazione, quali sono gli obiettivi portanti?
 

L’associazione di volontariato Happy Bridge, nata il 14 Febbraio del 2011, ha come obiettivo quello di promuovere attività che migliorino la vita delle persone detenute e delle loro famiglie. Le attività che in questi anni svolte, con l’aiuto di diversi volontari, sono di diversa natura , essenzialmente di tipo culturale, perché crediamo che la conoscenza sia una delle armi più potenti contro il crimine e l’illegalità. Al centro l’assistenza ai detenuti per migliorare le loro condizioni di vita.
 

- Quali sono le attività che questa associazione promuove?


Per precisare ci siamo occupati di creare eventi musicali, laboratori di scrittura, sportelli di ascolto, corsi di yoga, assistenza legale, pratiche di mediazione familiare, laboratori linguistici, corsi di informatica, ecc. Durante il periodo pandemico purtroppo tutte le attività di volontariato nelle carceri sono state sospese, per cui abbiamo proseguito soltanto con i laboratori di scrittura a distanza ed al sostegno delle persone in detenzione domiciliare per le quali non erano state previste attività di sostegno culturale. Poi abbiamo pensato di incrementare i progetti di prevenzione, progetti che già in parte erano stati avviati con diverse scuole, proprio per contrastare sia la recidiva che il rischio di finire in carcere. Il carcere spesso è visto come un luogo a dire il vero negativo, ma in effetti non è e non deve essere cosi, anzi dovrà essere il luogo di principale formazione e rieducazione per chi sconta la pena.
 

- Che significato ha per lei il carcere e cosa si prova quando ci si entra?


Io sono entrata in carcere nel 1991 da docente di economia aziendale per un istituto di istruzione superiore. Fu una casualità e non una scelta, in quanto non conoscevo il carcere e non sapevo neanche che i detenuti avessero accesso all’istruzione. All’inizio fu un po’ scioccante per le numerose porte di accesso, il rumore delle chiavi e la loro grandezza, i muri grigi, gli odori insipidi della cucina ed il fumo di sigarette, la poca igiene degli spazi comuni, ma soprattutto l’andirivieni dei detenuti nei corridoi. Poi, essendo io una persona curiosa ma anche con un occhio molto rivolto al sociale ed in particolare alle fragilità, ho cominciato a cercare di capire come funzionasse realmente il carcere. Allora osservavo tutto quello che succedeva, facendo molte domande sia ai detenuti che agli educatori, agenti, Direttori, diciamo andando oltre il mio ruolo di docente. Dall’ascolto e dall’osservazione avevo già capito che il carcere così come era non riusciva ad assolvere alla sua funzione rieducativa e di reinserimento delle persone detenute, ma che in genere peggiorava le persone perché le teneva in una stato di infantilismo e dipendenza. La scuola rappresentava e rappresenta a tutt’oggi una grande opportunità di crescita personale e culturale, oltre a far diminuire la possibile recidiva dei reati, sebbene con ancora molti limiti per gli accessi e per la mancanza delle tecnologie.
Però devo dire che sicuramente gli anni ’90 sono stati i migliori a mio avviso, era tutto molto più semplice, paradossalmente, ed i rapporti con il personale amministrativo era più semplice e costruttivo, meno burocratico. Poi è andato tutto peggiorando. Tutto ciò mi ha portato nel 2011 a costituire l’Associazione Happy Bridge con 4 mie amiche, tutte professioniste impegnate in diversi settori. Non a caso ricorreva il 14 Febbraio la Festa degli innamorati, e sicuramente era l’amore che ci ha spinte ad intraprendere questo nuovo percorso di volontariato in carcere.
Ultimamente abbiamo assistito anche ad alcune forme di violenze, per esempio quei filmati che
hanno fatto il giro del mondo del carcere di Santa Maria Capua Vetere, dove agenti della polizia
penitenziaria hanno colpito alcuni detenuti.

- Cosa ha provato nel vedere questo e cosa secondo lei bisognerebbe fare per evitare un evento simile?

 Purtroppo o per fortuna direi, gli eventi di Santa Maria Capua Vetere non mi hanno meravigliato, ma certamente dispiaciuto.
La gente comune non sa fino in fondo quali siano state le condizioni dei detenuti nel periodo pandemico, il forte stress per le molte privazioni che hanno dovuto subire, dalla mancanza dei colloqui in presenza, l’assenza di tutte le attività culturali, l’assenza dei volontari, la carenza di informazioni su quello che stava accadendo nel mondo. Almeno all’inizio è stata davvero pesante, tanto che le rivolte lo hanno dimostrato, poi magari le tensioni si sono alleggerite con la concessione delle telefonate via skype, ma la situazione dei contagi ha messo tutti a dura prova. E’ chiaro che in tutto questo, gli agenti sono state le persone più vicine ai detenuti e quindi quelle che hanno subito maggiormente le pressioni, a differenza del personale amministrativo, per cui anche loro hanno perduto il senno. Non voglio giustificare nessuno, perché rifuggo la violenza in ogni caso, ma dico che purtroppo quando si parla di fragilità in carcere mi viene da pensare anche agli agenti di polizia penitenziaria che purtroppo, in gran parte, non sono ben consapevoli del ruolo che svolgono e i danni o benefici che potrebbero apportare nel loro lavoro. Purtroppo anche queste persone vanno ben istruite e supportate psicologicamente perché il loro è un ruolo delicato e importante. Ne ho conosciuti molti fuori di testa, ma anche molti bravi ed umani. Non si può generalizzare, però il sistema va cambiato e gestito diversamente. Il carcere così come è oggi non funziona e non assolve ai dettati costituzionali dell’art.27.
Ci vuole una riforma seria che coinvolga tutti gli interessati, e direi meglio tutta la società, perché il carcere riguarda tutti, non è un istituzione isolata. Ogni uomo, anche il più bravo, può finire in carcere, perché il cervello è una parte molto sottile del nostro corpo, e può scatenare reazioni a volte inconcepibili razionalmente, ma che sono legate alla sfera emozionale e quindi talvolta incontrollabile. La storia ce lo insegna, grandi personaggi che si sono macchiati di crimini pesanti, molti neanche li conosciamo, ma ci sono. E allora dobbiamo parlare di cura delle persone che sono cadute, per aiutarle a rialzarsi perché ogni vita è importante ed in tutti c’è una parte buona, anzi direi eccellente. Se non si comprende questo non si va da nessuna parte. Spero nella nuova Ministra che ha visioni più elevate rispetto ai suoi predecessori, ma è ovvio che il Ministro da solo non può fare tutto.

- La vostra associazione si occupa anche di prevenire la detenzione, infatti sta promuovendo un importante progetto nelle scuole, “Un pallone per la legalità”. Di che cosa si tratta e come può una scuola aderire?


“Un Pallone per la legalità”, rivolto a tutte le scuole del territorio nazionale, con l’obiettivo di trasmettere ai giovani, valori etici e di educazione civica e legalità, al fine di prevenire atti criminali, di bullismo, di violenza, razzismo, dipendenza da sostanze stupefacenti, azioni che possono segnare in maniera drammatica la vita di tante persone. Il progetto viene svolto con la preziosa partecipazione di Fabrizio Maiello, ex detenuto in OPG di Reggio Emilia, il quale attraverso la sua esperienza e storia di vita in Carcere prima e Ospedale Psichiatrico Giudiziario dopo, ci introduce al complesso e duro mondo della detenzione, ma anche della possibilità di riscatto e cambiamento.
Lo sport, ed in particolare il calcio, fa da veicolo per la trasmissione dei messaggi di legalità, di inclusione, di disciplina e tanto altro.
Per aderire basta mettersi in contatto mail con la nostra Associazione:

 associazionehappybridge@protonmail.com

 

- E per quanto riguarda le istituzioni, come si pongono davanti a tanti problemi e cosa si sente di chiedere in questo momento?
 

Ho partecipato al memento organizzato da Rita Bernardini, esponente radicale, in occasione del quale ho parlato della scuola e del diritto all’istruzione in carcere, ovvero più scuola = meno carcere.
Oltre alla cultura ed al diritto all’istruzione, mi sento di chiedere appunto una riforma vera della giustizia ed in particolare dell’esecuzione della pena che deve essere umana e giusta. Come già detto il carcere cosìcome è oggi è una macelleria umana, che crea altri criminali. Manca tutta l’attività di  reinserimento sociale e lavorativo, oltre alla rieducazione che chiamerei ormai in un altro modo ed attuerei diversamente.Ci vuole personale preparato e motivato, un dialogo costante con tutti gli operatori territoriali, ecc. ecc.
 

Non si butta via la chiave per nessuno.

 

 A cura di Giovanni Paladino

domenica 11 luglio 2021

INTERVISTA A FABRIZIO MAIELLO SULLA TANTO ATTESA ITALIA - INGHILTERRA DELL' 11 LUGLIO 2021

 

Dai “sacri riti” scaramantici al “voto” in caso di augurata vittoria.

 




Il nostro grande Fabrizio Maiello, noto per le sue famose acrobazie e palleggi con oggetti di ogni genere (in particolare frutta e ortaggi - Fabrizio Foodball), ci risponde a qualche domanda sulla grande partita finale di questa sera tra Italia e Inghilterra. Come molti di voi già sapete, Fabrizio ha una storia molto particolare. Da ex promessa del Monza che gli valse il soprannome di “piccolo Maradona”, si è ritrovato a sopravvivere al carcere e in particolare all’OPG. La sua resilienza e voglia di riscatto sono il frutto del suo amore per il calcio e di una forte amicizia con il suo compagno di cella Giovanni. Con lui abbiamo intrapreso il progetto “Un pallone per la legalità” che porteremo nelle scuole italiane. Si rimanda al blog di Happy Bridge per la storia di Fabrizio e per il progetto. 

 


- Fabrizio sei o sei mai stato scaramantico prima di una partita? Hai mai avuto dei “sacri riti”?


Certamente la scaramanzia nel calcio esiste ed è molto sentita dalla maggior parte dei calciatori, dalla squadra, all'interno degli spogliatoi e sul campo di gioco oltre, naturalmente, tra i tifosi sugli spalti e a casa davanti alla tv.
Io ero molto scaramantico già da giovane calciatore. Ricordo che un attimo prima di scendere in campo tenevo stretti in mano tre granelli di sale grosso che facevo cadere a terra appena mettevo i piedi sul terreno di gioco. Anche in carcere e soprattutto nell’OPG di Reggio Emilia, la mia "scaramanzia calcistica" legata alla mia passione per il calcio è andata avanti da dietro le sbarre di una cella.
Lì il  mio "sacro rito" di ogni domenica di campionato prima di collegarmi con la radiolina a “Tutto il calcio” minuto per minuto, era socchiudere il cancello e il blindo (perché mi trovavo in una sezione aperta), stendermi sulla branda sotto il poster del mio unico e vero idolo Diego Armando Maradona e poi fischiare con un fischietto da arbitro (regalatomi dagli amici della Uisp) il fischio d'inizio e il triplice fischio finale, oltre naturalmente i fischi di gioia legati ai goal del mio Napoli.
La scaramanzia - in questi casi - sconsiglia vivamente di esporsi a pronostici oltretutto pubblici, ma mi prenderò il rischio di farlo e lo farò, perché credo che sia un po' come avere il coraggio di tirare il calcio di rigore decisivo che ha tirato il nostro Giorgigno contro la Spagna. E poi voglio soprattutto credere che questa sera porti fortuna ai nostri Azzurri. Anche questa per me si potrebbe chiamare scaramanzia al contrario! 

 




- Come tiferai questa sera per l’Italia?

Questa sera anch'io tiferò per la nostra Nazionale davanti alla TV, lo farò da ex sportivo, ma anche e soprattutto come un attuale "sportivo sociale" a favore sempre e solo della legalità e della libertà.
Per cui tiferò come qualsiasi altro tifoso italiano contento e felice dal punto di vista prettamente sportivo se dovesse arrivare questa prestigiosa vittoria dei nostri Azzurri. Tiferò anche alla resilienza e al coraggio che l’Italia ha saputo dimostrare al mondo intero nell'affrontare la pandemia che ci ha colpiti duramente e quasi abbattuto ma mai vinti definitivamente.
Nella partita di questa sera ci saranno davvero un insieme di emozioni e tutti, da tifosi nelle nostre case e nelle piazze, dobbiamo tirare fuori il meglio di noi, cioè il meglio della nostra bella Italia.




- Qualche pronostico su come andrà? Secondo te si arriverà ai rigori?

Il mio pronostico. L' Italia, razionalmente parlando, non parte da favorita.  L'Inghilterra è una squadra già molto forte di suo, sia dal punto di vista tecnico che tattico, ma soprattutto, anche dal punto di vista fisico. In aggiunta, parte avvantaggiata, giocando in casa in uno stadio pieno di tifosi inglesi. Questo lo farà pesare non poco. Comunque, detto tutto ciò, il cuore e anche la mia testa mi dicono che vinceremo noi e per farlo ci basteranno i classici 90 minuti. Credo che difficilmente questa partita andrà a finire ai tempi supplementari e ancora meno ai rigori. In ogni caso stasera ci sarà da soffrire tantissimo e maledettamente ma - a mio modesto avviso - per un tempo minore di quello della semifinale contro la Spagna.
Se al triplice fischio finale dell'arbitro la vittoria dei nostri Azzurri sarà, io la vedrò e la vorrei immaginare come un volano per continuare nel mio impiego sociale attraverso il pallone e attraverso lo sport. Se la nostra squadra diventerà campionessa d'Europa sarà per me un ulteriore sprono a portare con ancora più forza ed energia il mio impegno sociale attraverso il calcio, il quale è stato la mia vita e la mia resurrezione. Per cui mi piacerebbe davvero tanto, nel caso dell’augurato esito positivo, poter festeggiare insieme a tutti i giovani che incontreremo tra qualche mese nelle scuole grazie al bellissimo progetto della nostra amica Maria Teresa Caccavale “Un pallone per la legalità” che ha lo scopo di prevenire la criminalità tra i giovani ed il rispetto della legalità proprio  attraverso i sani principi di uno sport popolare come il calcio.  Sono sicuro che sulle ali di questo Campionato europeo molti più ragazzi sarebbero propensi ad ascoltare le mie parole e quelle dei nostri cari amici coinvolti nel progetto, tra i quali anche Antonella Leardi madre di Ciro Esposito morto a causa della tifoseria incontrollata.  Abbiamo da insegnare moltissimo soprattutto ai più giovani anche dal punto di vista umano e sociale.

 



- Nel caso dell’augurata vittoria dell’Italia, come festeggerai?

Cari amici, alla faccia della scaramanzia, vi lascio con una promessa e un mio piccolo "voto":  Se al triplice fischio finale saremo davvero noi i Campioni d'Europa, io uscirò di casa per festeggiare con il mio pallone e palleggerò per le strade del paese fino ad arrivare nella piazza della Chiesa. Forza Italia e che la Madonna ci accompagni alla vittoria!

 

A cura di Maria Sole Lupi 









mercoledì 7 luglio 2021

PROGETTO UN PALLONE PER LA LEGALITÀ



 


Presentazione del Progetto

Il progetto si propone di trasmettere ai giovani valori etici, di educazione civica e di legalità, al fine di prevenire atti criminali, di bullismo, di violenza, razzismo, dipendenza da sostanze stupefacenti, ecc., azioni che segnano drammaticamente la vita delle persone e quella della propria famiglia in modo irreversibile. La maggior parte dei giovani oggi non è consapevole delle conseguenze che possono scaturire da azioni che possono apparentemente sembrare innocue o poco rilevanti, perché non conoscono il carcere e la privazione della libertà. Per questo motivo, l’Associazione Happy Bridge che da anni si occupa di progetti di assistenza e reinserimento delle persone svantaggiate ed in particolare di persone private della libertà cercando di creare quel ponte indispensabile tra il carcere ed il mondo esterno, ha ritenuto fondamentale oggi rivolgere la propria attenzione anche a favore della prevenzione della criminalità, ritenendo che sarebbe più efficace operare in tale direzione. I dati nazionali ed internazionali ci rivelano le alte percentuali di atti di violenza, di bullismo, di uso di sostanze stupefacenti, abbandono scolastico, ecc. tra i giovani, e che pertanto è importante inserire nei processi educativi discipline ed attività che riducano tali percentuali ed educhino i giovani ad un approccio più sano alle relazioni, relazioni che devono essere meno conflittuali e più costruttive e partecipative ai processi di cambiamento sociale. Per questo ci serviamo di studi, esperienze ed attività di specialisti nella visione di nuovi insegnamenti , quali ad esempio quelli che si riferiscono al NUOVO UMANESIMO del Prof. Orazio Parisotto (dal libro La Rivoluzione Globale, per un Nuovo Umanesimo)Presidente della United Peacers, insegnamenti sulla base dei quali è stato condotto dalla Prof. Maria Vittoria Mulliri il progetto pilota di Educazione civica "Nuovo Umanesimo" nei Licei Scientifico, Classico e Artistico dell'IIS G. Galilei - T. Campailla di Modica(RG)(www.europaperigiovani2014.altervista.org),nonché di esperti di mediazione dei conflitti e di controllo delle emozioni. Il carcere va evitato, oltre che ripensato in ossequio ai dettati costituzionali (art.27 della costituzione). Gli interventi saranno pertanto condotti anche da persone esperte del mondo carcerario, nonché da ex persone detenute o loro familiari che illustrano le loro esperienze di vita (Antonella Leardi madre di Ciro Esposito). In questo progetto assume particolare rilevanza l’attività sportiva e specificatamente quella calcistica, legata alla storia di Fabrizio Maiello, che dopo una esperienza di vita criminale, e durante la sua permanenza in carcere e nell’Ospedale Psichiatrico Giudiziario, è riuscito a riscattarsi e a far emergere tutti i lati positivi della sua personalità. Oggi Fabrizio, insieme al suo pallone ipnotizzante e catartico, va nelle scuole e Università, e tra un palleggio e l’altro, racconta la sua storia agli studenti e docenti per sostenere i progetti a favore della legalità.



Correre dietro ad un pallone per raggiungere la libertà, la vittoria attraverso una sana competizione, dove chi vince è il gruppo e non il singolo. Uno sport quello del calcio attraverso il quale si può comprendere che nessuno vince da solo, così come nessuno si salva da solo. Comprendere che bisogna accettare le sconfitte, le cadute, le fragilità,senza che si generi violenza, una violenza che può uccidere, come è successo a Ciro Esposito ed altri ragazzi innocenti. I giovani hanno bisogno di riflettere sulle proprie azioni e su come gestire la propria emotività incanalandola positivamente.


MODALITA’ OPERATIVE

I° Incontro

- Breve presentazione dell’Associazione Happy Bridge ODV

- Il ruolo delle Associazioni e l’importanza del volontariato

- Breve illustrazione del sistema penitenziario italiano

- Presentazione di Fabrizio Maiello e la sua storia

- Riproduzione di un video su storie di bullismo e violenza

- Lo sport di gruppo(calcio) come forma di inclusione e riabilitazione

- Dibattito e questionario

II° Incontro

- Introduzione al processo di mediazione

- La mediazione per la risoluzione dei conflitti

- La figura del mediatore nelle scuole

- Casi pratici

- Dibattito e questionario

Prima di ogni incontro verrà fornito alle scuole il materiale utile alla preparazione dei ragazzi. Al termine degli incontri verrà donato all’Ente ospitante un pallone simbolo della legalità.


Documenti da visionare e consultare dai siti web:
www.happy-bridge.blogspot.it
www.unitedpeacers.it
www.europaperigiovani2014.altervista.org
Abstract della Dott.ssa Martina Vallesi
Google: Storia di Fabrizio Maiello
Libro: La Rivoluzione globale per un nuovo Umanesimo del Prof. Orazio Parisotto

Referente del Progetto
Prof. Maria Teresa Caccavale
Presidente dell’Associazione Happy Bridge
Ambasciatrice Epale per l’educazione degli adulti
Membro della United Peacers
Coordinatore del Progetto di educazione civica nelle carceri






venerdì 28 maggio 2021

Il problema relativo allo spazio della pena


 

 Articolo di Maria Sole Lupi

Lo spazio della pena è una delle tematiche più importanti e più dibattute quando ci riferiamo ad una pena costituzionalmente intesa. L’Art.27 comma 3 della Costituzione cita: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”.

Ebbene, la prima riflessione che occorrerebbe fare è certamente relativa allo spazio di quale tipo di pena. Tuttavia, trovandoci ad oggi in una logica penale ancora prettamente di tipo “carcerocentrica”, è d’obbligo “limitarsi” allo sconto della pena in carcere.

Un istituto detentivo che risponda ai requisiti del trattamento umano e teso alla rieducazione del condannato è certamente quello immaginato dalla riforma del 1975, il quale mette nero su bianco la necessità di spazi utili alla rieducazione e alla risocializzazione per il reinserimento sociale del reo. Ovvero di spazi pensati per l’attività scolastica e formativa, spazi di lavoro e qualificazione professionale, spazi per attività socio-ricreative e di spazi dedicati agli incontri con i familiari e i legali, oltre che per l’assistenza sanitaria e il culto religioso.

 

Lo spazio della pena detentiva, ossia lo spazio del carcere, dovrebbe avvalersi di un insieme di spazi sia interni che esterni volti a garantire, secondo gli Artt. 2 e 3 della Costituzione italiana, il rispetto della pari dignità della persona reclusa[1] e dei suoi diritti inviolabili, in quanto il carcere costituisce “una formazione sociale” ove il detenuto svolge la sua personalità[2].

 

Ad oggi, timida è stata la risposta attuativa alla normativa prodotta in termini di spazi, nonostante il legislatore sia stato chiamato più volte ad intervenire sul miglioramento dei luoghi della vita carceraria. La recente riforma dell’Ordinamento Penitenziario, con i d.lgs 2 ottobre 2018 n. 123 e n. 124, ha normativamente disposto la necessità di locali più idonei alle attività sportive, ricreative e religiose[3], l’aumento delle ore d’aria, incremento dell’assistenza sanitaria, maggiore attenzione alle attività lavorative, alla formazione professionale e scolastica e al rapporto con le famiglie[4].

 

Tuttavia, a causa anche dei blocchi dovuti alla pandemia, non è affatto migliorata la situazione sulla riqualificazione degli spazi detentivi rispetto a quella antecedente al 2018. Lo stato delle carceri, come riportato periodicamente dall’Osservatorio di Antigone, è ancora fortemente inadeguato a garantire la finalità rieducativa della pena sia per il suo stato architettonico e edilizio, spesso in scarso stato di manutenzione, sia per le condizioni igieniche e sanitarie a volte precarie e una generale carenza di spazi dedicati ad attività sociali, ricreative o lavorative[5].

Emergono spazi inadatti e insufficienti anche per via di un sovraffollamento sempre crescente, dovuto all’aumento continuo della popolazione carceraria (soprattutto di genere maschile) dal 2013 ad oggi e che ha visto - solo nello scorso anno - il decrescere di 10.000 unità in buona parte grazie al d.l. 17 marzo 2020, n. 18, c.d. decreto 'Cura Italia'.

 

Come ben affermato di recente dal Garante Nazionale delle persone private della libertà personale Mauro Palma: «Occorre non tanto soffermarsi sulle dimensioni della cella, che dovrebbe ridursi ad una semplice camera di pernottamento, ma occorre pensare a tutta la parte esterna ad essa in cui vive la persona attuando una concezione spaziale diversa del carcere». (Mauro Palma, “Pene e misure non detentive tra scelte legislative, applicazioni amministrative e indirizzi della magistratura requirente” in Giornata inaugurale del Master di II livello in «Diritto penitenziario e Costituzione» VIII edizione).

 

Questa osservazione si allaccia necessariamente ad un secondo punto toccato anche dai relatori del Convegno citato (tra questi i professori Giovanni Serges, Marco Ruotolo, Capo DAP Bernardo Petralia e altri), ossia quello della pluralità degli attori che debbono, o almeno dovrebbero, confluire all’interno del carcere.

Se, dunque, guardiamo alla dignità della persona reclusa, è doveroso sottolineare che si necessitano spazi, non solo in termini di quantità, ma anche di qualità. Ossia di spazi affinché si concretizzi la disposizione contenuta con l’ultima modifica apportata alle Regole Penitenziarie Europee nella Raccomandazione R(2006) 2 del Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa all’articolo 5: «la vita in carcere deve svolgersi in modo possibilmente non difforme da quella che si svolge all’esterno»[6].

Tra questi, a titolo di esempio, lo spazio della pena dovrebbe includere di specifiche aree di accoglienza per le famiglie e di stanze dell’affettività in cui poter avere privatamente un’interazione sana tra genitori detenuti e figli e tra partner. La possibilità di godere della presenza di questi luoghi, sia essi esterni che interni agli edifici carcerari, contribuirebbe a ridefinire il senso di responsabilità del detenuto e della detenuta verso la propria famiglia - e principalmente nei confronti dei propri figli -, che un colloquio di un’ora o poco più non riesce a dare.

 

Tra i punti lasciati in sospeso dalla Riforma del 2018, e che contribuisce a delineare fortemente la situazione attuale, vi è senza dubbio la forte discrepanza tra gli istituti di pena italiani circa alcune modalità di trattamento e di svolgimento della vita carceraria della popolazione detenuta. Tra le cause di questo “gap” ad essere state lasciate irrisolte nella forma e nella sostanza, ve ne sono due sicuramente più importanti: la prima è la “scuola di pensiero” a cui appartiene il direttore del carcere, il quale può essere più o meno incline ad aprire la struttura ad iniziative provenienti dall’esterno; la seconda, strettamente collegata alla prima, è la dipendenza dall’offerta del territorio nel quale il carcere si colloca. Si rende necessario, pertanto, che - affinché sia effettiva la finalità rieducativa della pena - si propenda verso l’uniformazione della vita intramuraria degli istituti penitenziari con particolare riguardo a quei modelli virtuosi circa il rispetto della dignità della persona e dei diritti umani fondamentali.

Infine, che il carcere - in quanto “spazio della pena” non alieno alla società - sia strettamente collegato allo stato in cui vige la società al suo esterno e dunque anche alle opportunità che il territorio può offrire in merito alle opportunità professionali, formative e assistenziali.

 

Maria Sole Lupi



[1] Art.3 comma 1 Cost.: "Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”.

[2] Art.2 Cost.: "La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l'adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica, sociale ".

[3] Art 5 Ord. penitenziario modificato dal D.Lgs. 2 ottobre 2018, n. 124 : “Gli edifici penitenziari devono essere dotati di locali per le esigenze di vita individuale e di locali per lo svolgimento di attività lavorative, formative e, ove possibile, culturali, sportive e religiose”.

[4] Art. 15 Ord. penitenziario modificato dal D.Lgs. 2 ottobre 2018, n. 124: “Il trattamento del condannato e dell'internato è svolto avvalendosi principalmente dell'istruzione, della formazione professionale, del lavoro, della partecipazione a progetti di pubblica utilità, della religione, delle attività culturali, ricreative e sportive e agevolando opportuni contatti con il mondo esterno e i rapporti con la famiglia”.

[5] XIII Rapporto di Antigone: “Lo spazio del carcere e per il carcere” di Alice Franchina.

[6] Art.5 della Raccomandazione R(2006) 2 del Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa

lunedì 17 maggio 2021

Viaggio nelle carceri italiane



Basta non guardare le porte e potrebbe sembrare un convitto, o anche un ospedale. Invece è proprio un carcere. Siamo a Bollate, hinterland di Milano. Vengono da tutta Europa a trarre ispirazione da un modello che responsabilizza il detenuto e ne prepara il reinserimento. Con i suoi laboratori - e c'è perfino l'ippoterapia - è un ideale che funziona davvero. Per ora, però, il sogno si ferma qui. La Casa di reclusione II di Bollate fa ancora figura di cattedrale nel deserto, rispetto alle altre.




venerdì 14 maggio 2021

VOLONTARI IN CARCERE: ECCO CHI SONO E COSA FANNO

 
 

VOLONTARI IN CARCERE: ECCO CHI SONO E COSA FANNO

Chi, per qualsiasi motivo, ha conosciuto il mondo del carcere, ha spesso voglia di impegnarsi come volontario per aiutare chi ci vive. 

Articolo di Maurizio Ermisino di Retisolidali.it

Il carcere è un mondo a sé, con le sue regole e i suoi ritmi. Una volta conosciuto è difficile scrollarselo di dosso, che lo si abbia sperimentato come detenuti, come insegnanti o legali, o con qualsiasi altra missione si sia entrati tra quelle mura. Molte delle persone che, da diversi punti di vista, hanno conosciuto il carcere tendono a tornarci, da volontari, per aiutare chi è lì dentro. Semi di Libertà Onlus ha organizzato un corso on line, Volontario dentro e fuori il carcere, per far conoscere molti aspetti utili a chi vuole occuparsi di questo mondo così delicato, e hanno aperto un gruppo su Facebook per discuterne (Volontari dentro e fuori il carcere). È qui che abbiamo conosciuto molte delle storie che vi raccontiamo, per capire che cosa c’è dentro chi sceglie di fare volontariato in carcere.

Uno sportello d’ascolto

Maria Teresa Caccavale ha insegnato in carcere per 27 anni, dal 1991. Quel mondo le è rimasto dentro e oggi ha un’associazione, Happy Brigde, che si occupa di varie attività con i detenuti. L’incontro con quel mondo è arrivato per caso. «Nel 1991 vinsi il concorso a cattedra, e dovevo scegliere una sede», ricorda. «La sede non era il carcere ma la scuola dove avevo insegnato precedentemente. Ma la cattedra era sparita. L’unica che rimaneva nella zona era Rebibbia. È stato un caso, al carcere non ci avevo mai pensato».

 

 

Una tombola solidale, organizzata da Happy Bridge

«All’inizio avevo un po’ paura», racconta. «Colpa delle leggende che descrivono il carcere e i detenuti come persone pericolose. Invece è stata la scoperta di un mondo che mi ha dato tantissimo». In carcere un insegnante non fa mai solo l’insegnante. «Cercavo di capire come funzionava la struttura e così si creava un rapporto confidenziale con i detenuti, che mi chiedevano di intercedere con l’area educativa, o di aiutarli con delle pratiche in sospeso», rievoca Maria Teresa Caccavale. «Ho incominciato a fare sostegno alle famiglie, a chi aveva problemi con i figli e le mogli, chi aveva bisogno di parlare con gli insegnanti dei figli». E così è nata un’analisi dei bisogni reali delle persone che vivevano in carcere. «La scuola c’era, c’erano i corsi di ceramica, l’università, lo sport. Mancava uno sportello di ascolto, dei volontari che andassero là e ascoltassero le necessità dei detenuti» racconta Maria Teresa. «Mancava lo sportello legale, un avvocato che gratuitamente  desse delle consulenze ai detenuti. Ho pensato di fare un corso di yoga, un’attività alternativa alla fisicità dello sport ordinario, che ti dà una disciplina di vita, insegnamenti che ti fanno evolvere. È stata un’esperienza bella con molta difficoltà, non a causa della direzione, ma del contesto: non avevamo una sede, una stanza, abbiamo dovuto farlo nei corridoi. Abbiamo pensato a un laboratorio linguistico di spagnolo. E un laboratorio di scrittura».

Il 14 febbraio 2012 è nata l’associazione Happy Bridge. In questi anni ha organizzato concerti e ha fatto scrivere le persone. Così è appena nato un libro, Pensieri reclusi. E in questi anni arrivate nate tante soddisfazioni, come quella di vedere un proprio allievo di yoga diventare riflessologo plantare, e un altro maestro di yoga in Albania.

Lo yoga e i traumi

A proposito di yoga, c’è chi ha deciso di mettere la sua esperienza al servizio dei detenuti del carcere di Verona. È Roberto Cagliero, e insegna meditazione dal 2003. Anche la sua esperienza è iniziata per caso. «Tre anni fa un gruppo di Verona che gestisce dei cavalli che vivono nel carcere di Verona e di cui si occupano i detenuti per un corso che sfocia in un diploma di tecnico di scuderia, mi ha chiesto di partecipare con una lezione di yoga», ci ha raccontato. «I detenuti non sono a loro agio con gli animali: stando al chiuso, in situazioni potenzialmente fragili, il contatto on l’animale un po’ di paura la suscita sempre».

 

 

Yoga in carcere: non è facile insegnarlo, ma è utile

Era da un po’ che Roberto pensava al volontariato, e l’occasione ha dato il via a una nuova idea. «Ho coinvolto altri insegnanti di yoga e meditazione, perché c’è stata la possibilità di aprire l’attività anche nella sezione femminile, dove insegnano tre ragazze» racconta Roberto. «Tre anni fa ho fatto un corso a Londra con un’associazione americana, Prison Yoga Project, che fa una serie di seminari in giro per il mondo per insegnare a relazionarsi con i detenuti, e gli esercizi da non fare per non scatenare reazioni avverse».

«I detenuti negli Stati Uniti per il 90% hanno avuto traumi, prima di andare in carcere», spiega. «E ci sono delle modalità che possono fare da trigger, riportarli nel momento in cui hanno subito il trauma e possono avere reazioni che li destabilizzano. Toccare una persona sulla spalla da dietro è qualcosa che lo manda in tilt. Esercizi in cui ti metti a 90 gradi possono ricordare una sgradevole ispezione, o quelli in cui incroci le mani potrebbero far pensare all’arresto. Sono persone sempre in allerta, che prendono farmaci per dormire e possono abusarne». L’impatto con il carcere, per Roberto Cagliero, non è stato difficile, anzi. «Erano tre anni che andavano dentro con i cavalli» racconta. «Non ho trovato grosse differenze tra un gruppo di detenuti e uno di allievi normali. Certo, tutto è più rallentato. Il trauma ti porta a quel processo che si chiama numbing, un rifiuto della relazione con la realtà».

Tornare in carcere, da volontario

C’è poi chi si trova a fare volontariato in carcere perché in carcere c’è stato, come ospite. Marco Costantini è stato un residente del carcere di Rebibbia e quel mondo gli è rimasto dentro, ma nel modo migliore. Oggi lavora con il Partito Radicale, ma non ha mai smesso di aiutare chi è rimasto in carcere, da volontario, da solo o con realtà organizzate. «Ho conosciuto tante persone, tanti volontari» ci racconta. «Io ho fatto l’università, e vedere tante ragazze che donavano le ore del loro pomeriggio – invece che stare con il ragazzo o con le famiglie – per farci studiare, per farci capire il passaggio di un esame, mi ha fatto capire che è un donare ti fa stare bene».

«Ho cominciato ad aiutare tante persone che non avevano possibilità economica, piccole cose pratiche», continua. «Poi ho iniziato un percorso: abbiamo cominciato a dare un supporto agli stranieri, a fare per loro delle pratiche». «Sono cose che mi vengono in maniera normale, neanche mi sforzo a farle» confessa Marco. «Faccio volontariato come singolo, ma collaborato con Sant’Egidio, ad esempio per i pranzi di Natale. Ma cerchi di fare un po’ tutto, per donare un po’ del tuo tempo a persone che hanno bisogno». E in questo modo arrivano anche le soddisfazioni. «Abbiamo voluto fare un evento a Rebibbia contro la violenza sulle donne» ricorda. «Tutti mi dicevano che era impossibile. Invece sono riuscito a portare l’avvocatessa Lucia Annibali. Per me è stata una grande rivincita: ha fatto capire che anche i detenuti hanno una coscienza, dentro hanno molto, ma se non vengono aiutati non possono crescere».

Imparare a fare il volontario

La vita da volontaria deve ancora iniziare invece per Simona Ciaffone, oggi tirocinante al Tribunale di Sorveglianza di Roma e praticante abilitato in uno studio di diritto penale. Ha appena seguito il corso di Semi di Libertà Onlus e sta per dare vita a una sua associazione. «Tratto quotidianamente la materia e l’ho sempre vista da fuori», spiega. «E mi sono resa conto di quanto sia difficile fare volontariato in carcere. Ho imparato a comunicare con i detenuti  e mi sono detta: vorrei imparare un linguaggio che non sia solo quello prettamente giuridico. Perché le persone hanno bisogno di altre speranze che non siano le vie legali».

 

Rita Bernardini intervista  Maria Teresa Caccavale, presidente di Happy Bridge

C’è allora bisogno di una formazione, di trovare un nuovo modo di relazionarsi. Il corso è servito a questo, e a togliere quel poco di pregiudizio che si rischia di avere in questi casi.  «Il percorso di studi ti preparava a una realtà piena di crimine. Avvicinandomi mi sono resa conto di quanto possano incidere le situazioni personali, contesti di provenienza, malattie, discriminazioni. Accanto al sistema penale deve esserci un appoggio umano, che ti tira fuori da quei contesti di provenienza».

«Nel momento in cui ci rapportiamo al detenuto, come professionisti, dobbiamo avere un po’ di distacco, dobbiamo distinguere le posizioni», continua. «Con il volontariato è un altro tipo di posizione ancora, di linguaggio, è un contesto diverso». Già frequentando alcuni luoghi come il Pub Vale La Pena ci si può rendere conto di che persone sono quelle che cercano di ripartire dopo il carcere, o in attesa di finire di scontare la pena. «Chi è entrato a far parte di percorsi riabilitativi e alternativi al carcere è molto disponibile al dialogo, a raccontarti da dove è partito» ci spiega la volontaria. «Chi si vede negato questo percorso fa più fatica. In una delle lezioni si diceva di fare attenzione a non lasciare da parte chi ha più fatica ad esprimersi».

Il volontario fa di più

Sono storie diverse una dall’altra, con il comun denominatore dell’importanza del volontariato in un mondo come questo. «Il terzo settore è importante per coprire le carenze a cui non può far fronte lo Stato,» concorda Maria Teresa Caccavale. «Durante il lockdown si è visto: certe persone si sono abbrutite completamente, c’è stato un arretramento».

«I volontari forniscono quello che lo Stato dovrebbe fornire, ma vengono proprio in sua sostituzione» commenta Simona Ciaffone. «Il volontariato è fondamentale non solo perché aiuta ad accompagnare un percorso educativo, ma lo fornisce ». «È impensabile che il sistema possa sopravvivere senza il volontariato» ragiona Roberto Cagliero. «Ma la volontà di riequilibrare le persone o punirle non è una decisione delle singole strutture, ma l’atteggiamento che il Ministero della Giustizia ha nei confronti del detenuto. E questo in Italia è disastroso»

 

articolo a cura di Maurizio Ermisino di retisolidali.it